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Dieci anni dalla strage di Utoya: anticipazione del paradigma securitario sempre più dominante

Dieci anni fa Anders Vehring Breivik, trentaduenne norvegese, compie un doppio attentato terroristico: prima fa esplodere un’autobomba nei pressi del palazzo del Parlamento norvegese a Oslo (morirono 8 persone e 209 rimarranno ferite) e poi si reca sull’isola di Utoya dove era in corso un campus organizzato dalla sezione giovanile del Partito Laburista Norvegese e, vestito da poliziotto, apre il fuoco sui ragazzi uccidendo 69 persone e ferendone 110 (per approfondire leggi qui).

All’inizio si parlò di follia, ma ben presto fu chiaro che eravamo di fronte a un atto di terrorismo nero. Breivik, oggi in carcere e mai pentito, è un estremista di destra che in tribunale ha affermato di aver compiuto gli attentati per mandare un “messaggio forte al popolo, per fermare i danni del partito laburista” e per fermare “una decostruzione della cultura norvegese per via dell’immigrazione in massa dei musulmani”.

Non fu un episodio isolato, purtroppo. Nel mondo non mancarono gli emuli di Breivik, come Brenton Tarrant in Nuova Zelanda o Luca Traini a Macerata nel febbraio del 2018.

Siamo di fronte a eventi tragici che ci dicono molto del tempo in cui viviamo e che dovremmo studiare di più e meglio per una visione critica del mondo attuale. Sempre di più prende il sopravvento una pulsione securitaria che irrigidisce il tema dell’identità e del confine in maniera patologica ed esalta la chiusura nei propri confini e l’esclusione dell’Altro, soprattutto se povero, straniero, diverso come unica strada di salvezza. E’ una vera e propria “malattia” del nostro tempo, psicologica e politica insieme con cui leggere anche i recenti fatti di cronaca italiani e i commenti di certa politica e di alcuni cittadini (anche i fatti di Voghera). L’odio focalizza le angosce. C’è chi su tutto questo sta costruendo fortune elettorali. Molti cittadini purtroppo ci stanno cascando, ma l’esito è diventare come Polonia e Ungheria, se va bene.

Ricordare Utoya oggi significa non dimenticare che la sfida più grande per la nostra generazione è quella capire tutto questo e attivarsi per opporsi a quest’onda nera, trovare il modo di far prendere coscienza a sempre più persone che l’esito di tutto questo non è maggiore sicurezza, ma assenza di vita e che rischiamo di ritrovarci ripiegati su noi stessi, senza sicurezza e senza libertà. Al contrario, diventare capaci di costruire confini porosi, dove l’identità si fonda sulla capacità di incontrare l’altro e di riconoscere il povero al pari dell’emarginato come qualcuno con il quale emanciparsi insieme e non come un pericolo da eliminare.

Anche oggi la memoria ha senso se ci fa guardare al futuro, dove un altro mondo possibile e necessario va costruito con il contributo di ciascuno di noi.

 

 

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