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Il ricordo della strage del venerdì santo del 1945: l’importanza della memoria

E’ stato un onore e un privilegio tenere l’orazione ufficiale in occasione del 74° anniversario della strage del venerdì santo del 1945 a Casalino e Cameriano. Onorando la memoria di Severino Comelli, Francesco De Stefano, Domenico Gatta, Francesco Lazzaroni, Giuseppe Manenti, Giovanni Poletti ed Ezio Roncaglione, onoriamo tutti gli uomini e le donne che hanno scelto di combattere, di stare dalla parte giusta, di sacrificarsi, di lasciarci in dote due doni: la dignità di popolo libero, capace di reagire alla violenza e alla sopraffazione, e la Costituzione. Ho voluto evidenziare che  il ricordo di episodio tanto truce, violento e ingiustificabile, oltre che “colpirci”, come fa uno schiaffo, deve metterci in cammino, come fa una spinta.
E’ troppo grande il rischio dell’oblio, della negazione, della sottovalutazione, soprattutto per le generazioni che non hanno attraversato momenti così drammatici. Dobbiamo mantenere viva la memoria perché una volta diventati consapevoli che tutto questo è possibile, che può ripetersi, che si è già ripetuto e che tutto questo ci riguarda, è nostra responsabilità fare tutto ciò che è in nostro potere perché la bilancia della vita e della storia si appoggi sul lato giusto.

Per questo ho rivolto a tutti una domanda: quale impegno mi richiede questo esercizio di memoria? A rifiutare la logica della paura e del capro espiatorio. Ad accettare la sfida di un progetto positivo per affrontare insieme i problemi che abbiamo di fronte: la diseguaglianza, la sperequazione, la crisi ecologica e sociale, le mafie e la corruzione, l’indifferenza sempre più diffusa. Onorare il ricordo di questi ragazzi, dei sette martiri di Casalino, significa prima di tutto richiamare tutti noi alla presenza, al protagonismo che ci viene richiesto per le sfide che abbiamo di fronte. Sta a noi trovare il modo di “liberarci insieme” da corruzione, diseguaglianza, ingiustizie, odio. Sta a noi lavorare per una comunità aperta e solidale, e portare, come in un’ideale staffetta, il testimone che oggi questi ragazzi ci consegnano.

Di seguito il testo integrale dell’orazione:

Buongiorno a tutti,

devo ringraziare il Comune di Casalino e il Comitato per il 74° anniversario della Commemorazione odierna che mi onora dell’invito a tenere l’orazione ufficiale.

Permettetemi di cominciare questo mio intervento ricordando Lele Caione, presidente di ANPI Borgomanero, scomparso pochi giorni fa. È tra coloro che in questa provincia hanno dedicato la vita a tenere viva la memoria. Un mese fa eravamo insieme a Cressa, alla commemorazione per Mora e Gibin, in un altro luogo della memoria, che come questo è fondativo della nostra identità collettiva.

Sono tanti i luoghi in Italia, e anche nella nostra provincia, che oltre a ricordarci quanto è accaduto, raccontano anche chi siamo noi. È Difficile definire che cosa sia l’identità di una persona o di una comunità. Un modo per intenderla è certamente quella di vederla come l’intreccio di passato, presente e futuro. Vale per ciascuno di noi e vale le nostre comunità.

Ricordando, chiamando di nuovo per nome, facciamo memoria selettiva… decidiamo quali sono le cose importanti che portiamo con noi nella vita che prosegue. Quel sacrificio, quella morte, non vanno dimenticati, anzi, dobbiamo portarli con noi, perché in tutto questo ci riconosciamo, decidiamo chi vogliamo essere…

È con questo spirito che ricordiamo oggi quanto accaduto 74 anni fa, i tragici eventi conosciuti come La strage del venerdì santo del 1945 e che onoriamo la memoria di Severino Comelli (17 anni), Francesco De Stefano (18 anni), Domenico Gatta (22 anni), Francesco Lazzaroni (18 anni), Giuseppe Manenti (25 anni), Giovanni Poletti (21 anni di Cressa), Ezio Roncaglione (18 anni).

Stiamo parlando di 7 giovani, come la maggior parte degli altri partigiani uccisi in quel periodo, trucidati a meno di un mese dalla liberazione. Tutti lo sapevano, anche i nazisti e i fascisti italiani che con loro collaboravano. Sapevano che la guerra era ormai persa. E in quel momento che cosa accade? Che emerge la parte peggiore dell’essere umano. Le cronache del tempo raccontano la cruda realtà:

«Non basta al loro sadismo ciò che è stato fatto. Verso le 13 raggiungono i cadaveri, li spogliano di quanto hanno indosso, quindi li sfregiano con i pugnali. Tirano di pugnalate all’occhio destro e al collo di Poletti, a De Stefano squarciano il ventre e vi introducono una pipa; il viso di Roncaglione e degli altri viene deturpato».

Un’orgia di sangue. La guida, spia e interprete, Borgonovo ordina al segretario comunale dr. Farnetti: «Adesso provvedete al seppellimento dei morti ma senza fare alcuna cerimonia. Ne va della vostra vita e di quella del prete, se fate diversamente. Se li lasciate marcire all’aperto, per noi fa lo stesso». Un giovanissimo milite urla, mostrando il pugnale insanguinato: «Quest’anno ho fatto una buona Pasqua».

Perché è importante ricordare anche i dettagli così macabri di una violenza agghiacciante? Perché è importante accompagnare i ragazzi ai campi di concentramento e raccontare loro gli orrori che lì sono avvenuti? Perché contrastare i tentativi di rimozione o negazione? Per un motivo molto semplice. Il rischio per noi, soprattutto per le generazioni che non hanno attraversato momenti così drammatici è quello di pensare che quel male così forte, così spietato, così disumano, non ci appartenga. Dopo aver tentato per anni di rimuovere o sminuire quanto accaduto (ancora oggi continuano i tentativi di negazionismo), molti oggi potrebbero pensare che quanto accaduto in quei momenti, come quello che ricordiamo oggi, sia così terribile da essere eccezionale, irripetibile. Non può accadere di nuovo. E comunque non a noi. Non è così. Il male, anche oggi, non è un fatto straordinario. Accompagna le nostre esistenze individuali e la storia collettiva. Sì, anche oggi: basta guardare alla cronaca anche di casa nostra o a quanto sta accadendo in questo momento in diverse parti del mondo. Si tratta di una normalità con cui dobbiamo fare i conti, perché diversamente ne saremo travolti. “Normali” sono i carnefici e “normali” sono le vittime, che prima di essere tali si ribellano e lottano. Non siamo in un film, neppure in un romanzo o in un fumetto, non ci sono mostri contro super-eroi, ma esseri umani da una parte e dall’altra che di fronte alle sfide della vita scelgono. Le descrizioni di questi carnefici, dei torturatori, spesso coincidono con quelle di “buoni padri di famiglia” che riescono ad assumere atteggiamenti mostruosi e disumani verso un prossimo che considerano “di meno” (con meno dignità, con meno diritti, con meno umanità), mentre nello stesso momento sono padri o figli amorevoli. È una contraddizione che ci portiamo dietro e che, in alcuni momenti della storia, diventa così forte da essere insopportabile.

Quanto accaduto in questo luogo 74 anni fa ci riguarda, ci parla, ci coinvolge. Ci ricorda che è possibile, dice qualcosa anche di chi siamo anche noi. C’è sempre una lotta in corso e la bilancia pende da un lato o dall’altro in base alle scelte che facciamo a livello individuale e collettivo. Non è mai una questione di fatalità.

Dobbiamo leggere quanto accaduto con gli occhi rivolti al presente e al futuro.

Dal punto di vista storico vale quanto ha già scritto Norberto Bobbio: «questa guerra e questo movimento stanno alla base dell’Italia contemporanea. Non possiamo capire quello che siamo oggi senza cercare di capire quello che è avvenuto in quegli anni. La Resistenza è stata una svolta che ha determinato un nuovo corso della nostra storia: se la Resistenza non fosse avvenuta la storia d’Italia sarebbe stata diversa, non sarebbe stata la storia di un popolo libero». [Quando De Gasperi si presenta al tavolo dei vincitori porta in dote il movimento di Liberazione]. La resistenza, quindi, lasciò in eredità due doni: la dignità di popolo libero, capace di reagire alla violenza e alla sopraffazione, e la Costituzione. Non è un caso che uno dei nostri padri costituenti più autorevoli, Piero Calamandrei, rivolgendosi ai giovani usò queste parole per descrivere la Carta: «Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra Costituzione». Noi possiamo dire, oggi, che anche qui è nata la Costituzione. Che ancora oggi ci parla di uguaglianza, solidarietà, pace, diritti, doveri… Che ancora oggi, ci sprona a costruire una società più giusta.

Il ricordo di oggi, quindi, oltre che “colpirci”, come fa uno schiaffo, deve metterci in cammino, come fa una spinta. Una volta diventati consapevoli che tutto questo è possibile, che può ripetersi, che si è già ripetuto e che tutto questo ci riguarda, è nostra responsabilità fare tutto ciò che è in nostro potere perché la bilancia della vita e della storia si appoggi sul lato giusto.

Per farlo non basta sapere. È importante nutrire la nostra mente e il nostro cuore. Come il corpo si ammala se non mangia o se ingerisce cibo spazzatura, così è per la nostra mente e per il nostro cuore. Così è per lo stato di salute di una comunità. Idee cattive e sentimenti negativi ci corrompono, ci preparano alla scelta sbagliata. Al contrario buone idee e sentimenti positivi ci preparano alla scelta giusta.

Abbiamo ricordato come non ci sia limite ai processi di disumanizzazione, che la crepa del guardare all’altro come un problema, un nemico, può arrivare ad abbattere il muro e, a quel punto, non resta più niente: solo l’orrore di giovani trucidati. Al contrario dobbiamo renderci protagonisti di processi di umanizzazione, perché la pace e la convivenza hanno bisogno di carburante tutti i giorni e quello dobbiamo mettercelo noi. Che cosa oggi sta attivando processi di disumanizzazione? Lo ha sintetizzato bene Zagrebelsky l’altro giorno su Repubblica. Siamo nel tempo della paura. È un sentimento che da sempre accompagna la vista sociale, ma che in certi momenti prende il sopravvento e diventa sentimento dominante. Quando questo avviene, come sta avvenendo, la convivenza diventa difficile, se non impossibile, perché al sentimento della paura si affianca immediatamente una dinamica del capro espiatorio. Si identifica qualcuno in particolare o una categoria come la causa di tutti i problemi, di tutto ciò che non va e si diffonde l’idea assai pericolosa che eliminando questo qualcuno o questa categoria tutti i problemi svaniranno. Noi dobbiamo opporci con forza a tutto questo… perché questo porta a conflitto, violenza e guerra.

Questo non significa che le difficoltà non esistano. Ci sono, ma una cosa è certa: la dinamica del capro espiatorio che utilizza la paura per coalizzare gruppi e persone contro un nemico è oppio che ci distrae, ci allontana dall’unica strada possibile che abbiamo per superarle. Si chiama politica, nel significato che don Lorenzo Milani ci ha insegnato: «il mio problema è uguale al tuo. Sortirne da soli è l’avarizia, sortirne insieme è la politica». Consapevoli che il nostro punto di vista deve necessariamente avvicinarsi il più possibile a quello di chi sta peggio. Anche perché chi sta meglio, di solito, ha le risorse per meglio tutelarsi.

Aumenta il pericolo quando ad alimentare la dinamica della paura non è solo qualcuno o qualche forza politica, ma le istituzioni. Questo da un lato produce uno sdoganamento di sentimenti e idee negative nei confronti dei cittadini. Se chi mi rappresenta può dire o fare certe cose, allora anche io posso. Dall’altro, così facendo, le istituzioni perdono la loro funzione principale che è quella di costruire comunità istituzionalizzando la fiducia. Le istituzioni, le autorità non servono a seminare odio e divisioni, ma, al contrario ad incrementare la fiducia reciproca, cioè l’elemento che costituisce il cuore dell’insieme sociale”.

L’esistenza di istituzioni politiche capaci di incarnare l’interesse pubblico è il discrimine tra le società politicamente sviluppate o meno.

Ognuno di noi deve pretendere da chi ricopre cariche istituzionali, al di là delle diverse appartenenze politiche, di lavorare per l’interesse generale alimentando la fiducia reciproca. Non possiamo stare insieme contro, ma per… per un progetto, per costruire qualcosa. Insieme.

La Costituzione ci fornisce uno scenario a cui lavorare insieme.

E la distanza dai principi indicati nella Costituzione è la misura della nostra distanza dalla Resistenza.

Su questo solco non possiamo sottrarci, allora, alla domanda fondamentale di giornate come quella di oggi: quale impegno mi richiede l’esercizio di memoria che stiamo facendo oggi?

A rifiutare la logica della paura e del capro espiatorio. Ad accettare la sfida di un progetto positivo.

Ad affrontare insieme i problemi che abbiamo di fronte:

  • la diseguaglianza, la sperequazione
  • la crisi ecologica e sociale
  • le mafie e la corruzione
  • l’indifferenza sempre più diffusa.

Vorrei chiudere proprio su questo. Sull’indifferenza. “Me ne frego” era il motto fascista. A quel motto don Milani contrapponeva L’«I Care», “mi sta a cuore”, riportato sulle pareti della scuola di Barbiana. Un “I care” che è diventato per molti di noi “we care”, “ci sta a cuore, ci interessa”. L’indifferenza è la morte della democrazia. Essa non sta in piedi su procedure formali o sul voto ogni 5 anni, ma necessita di uno spirito democratico che prevede una partecipazione attiva alla vita comune, animati dai valori della nostra costituzione. «In una democrazia – diceva sempre Norberto Bobbio – non si possono tollerare gli assenti. O per lo meno, se un giorno gli assenti dovessero diventare maggioranza, la democrazia avrebbe cessato di esistere».

Oggi andiamo a casa consapevoli che onorare il ricordo di questi ragazzi significa prima di tutto richiamarci alla presenza, al protagonismo che ci viene richiesto per le sfide che abbiamo di fronte. Sta a noi trovare il modo di “liberarci insieme” oggi da mafie, corruzione, diseguaglianza, ingiustizie. Sta a noi lavorare per una comunità aperta e solidale, e portare, come in un’ideale staffetta il testimone che oggi questi ragazzi ci consegnano.

Grazie.

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