Sabato scorso ci siamo incontrati a Torino presso Binaria, il centro commensale, per parlare di futuro e per iniziare a capire e a delineare i possibili futuri scenari che la politica ci mette di fronte.
Questo è il testo che ho usato come traccia per il mio intervento, e si articola in tre passaggi.
Gli occhiali
L’epistemologia ci insegna che tutto ciò che conosciamo è filtrato. Noi non abbiamo un rapporto diretto con gli oggetti, con la realtà, ma tra il soggetto e l’oggetto ci sono dei filtri… Intanto i sensi, con cui il soggetto conosce, la posizione che ha rispetto all’oggetto, la relazione con esso, e la cultura del gruppo a cui appartiene, che fornisce le categorie per cogliere o creare il significato di ciò che osserva o di ciò che vive. Lo stesso fenomeno – il fulmine, ad esempio, può essere letto/conosciuto come la collera di Zeus o come “una scarica elettrica di grandi dimensioni che si instaura fra due corpi con elevata differenza di potenziale elettrico”.
In analogia con questo ragionamento, non solo possiamo dire che le ideologie non sono morte. Dico di più: ne abbiamo bisogno! Perché rappresentano gli occhiali con cui guardiamo insieme alla realtà sociale e politica che intanto abitiamo. Privi di questi occhiali siamo come gli uomini incatenati descritti dal mito della caverna di Platone. Ve li ricordate? Possono guardare solo le ombre e pensano di osservare la realtà! Quelle ombre scambiate per realtà, oggi, per noi, da un punto di vista politico, sono i miti e le suggestioni del turbo-capitalismo finanziario globalizzato. Con tutte le storture che esso si porta dietro in termini di ingiustizia e diseguaglianza, che rischiano di passare come l’unica realtà possibile e ineluttabile. Chi ci dice che le ideologie sono morte, presentandocelo anche come un fatto positivo, semplicemente ci sta propinando l’ideologia dominante.
In pratica, abbiamo bisogno di ideologia perché abbiamo bisogno di occhiali con cui guardare il mondo. Occhiali che dobbiamo indossare insieme, perché la realtà è una costruzione sociale.
Che cosa vedo quando vedo un uomo povero? Quando vedo intere nazioni affamate? L’incapacità di un singolo o di un popolo a costruire il proprio destino? Una stortura da correggere? Dipende dagli occhiali che decidiamo di indossare. Dai valori di fondo, dalle idee guida. Rimane da capire quali occhiali ci servono. Quale ideologia? Quale visione? Quale insieme di valori e idee che indichino la strada del movimento collettivo?
Oggi non c’è il tempo per approfondire. Non ho però timore a dirvi che, dal mio umile punto di vista, abbiamo bisogno di occhiali, che abbiano almeno una lente socialista. In Italia è una parola che non evoca grandi ideali, per la contrapposizione tra partito comunista e socialista e per il ruolo che il PSI ha avuto nella prima repubblica, soprattutto nell’ultima fase, ma noi dobbiamo tornare a quell’insieme di idee e analisi che hanno meglio analizzato le contraddizioni del capitalismo, nelle sue forme iniziali e in quelle odierne. Se c’è qualcosa che è terminato, quando si parla di fine delle ideologie, non è certo quell’analisi lucida. Possiamo dire che ha fallito il materialismo storico, come interpretazione rigida dell’evoluzione della storia, come proposta di superamento delle contraddizioni, ma non l’analisi. Teniamo l’analisi e costruiamo insieme la proposta migliore per l’oggi, a partire da quell’analisi.
Certo oggi il socialismo deve essere nuovo, perché tale è il capitalismo. Oggi: capitalismo finanziario e internazionale.
La seconda lente deve essere “ecologista”, nel senso di Edgar Morin o di Papa Francesco. Siamo nell’era planetaria. La Terra è una ed è la casa comune, la patria unica di tutti gli esseri umani. Le ultime scoperte scientifiche ci aiutano in questo. Il grande e il piccolo, il vicino e il lontano, il noi e il voi cambia nelle diverse epoche. Quel grande immenso che era la terra sta diventando sempre di più un punto nell’universo. La stessa globalizzazione deve spingerci in questa direzione.
Questo passaggio è necessario, perché se la terra è una e comune non c’è più straniero. C’è quello che ci ha insegnato don Milani quando diceva:
Se voi però avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri, allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri miei stranieri.
(da L’obbedienza non è più una virtù)
Al contrario, però, oggi vediamo crescere i nazionalismi. Avete visto in Ungheria… ma anche in Italia. Ma non sono una risposta. Posso sembrarlo (e ai più pare così), ma siamo di fronte al classico caso in cui la soluzione diventa il problema e la medicina il veleno. La risposta che stiamo mettendo in campo, farà sì che i problemi che volevamo risolvere (la paura…) esploderanno. Stanno già esplodendo. Con conflitti prima commerciali e poi in vere e proprie guerre.
Quindi evviva le ideologie – evviva il socialismo nuovo e rinnovato: evviva il l’eco-socialismo!
La poesia
Quand’anche riuscissimo a ricostruire questi occhiali belli con i quali guardare alla realtà, come facciamo a distribuirli tra le persone e far sì che non li buttino? Questo nuovo eco-socialismo è una dottrina normativa, in base alla quale giudichiamo una realtà disdicevole oppure è movimento storico di prassi (fatta di teoria e azione) volto al cambiamento delle condizioni di oppressione? È chiaro che della prima ipotesi non ce ne facciamo nulla in politica. Ma è qui uno dei problemi più importanti. Perché la sinistra ha smesso di avere questo ruolo (di movimento storico) e come si fa a recuperarlo?
Restando sul terreno delle evocazioni direi che dobbiamo fare / ri-fare / fare “di nuovo” ciò che è successo con la teologia in America Latina, quando nacque la teologia della liberazione. Una teologia incarnata e preoccupata non solo dei cieli, ma anche della terra, soprattutto di chi, sulla terra se la cava maluccio.
Per fare questo dobbiamo cambiare piano. Dobbiamo arrivare al piano delle emozioni più profonde, dei sentimenti e della qualità delle relazioni, perché ogni forma di conoscenza passa anche sempre da questa mediazione. Ognuno di noi ha fatto esperienza di comunicazioni che non funzionano al di là dei contenuti, ma perché inficiate da emozioni negative o da relazioni squalificanti.
Ora noi sappiamo, perché ce lo dicono tutti da anni, che viviamo nel tempo del futuro incerto che genera paura, tradimento e senso di abbandono.
Due psicoterapeuti, Miguel Benasayag e Gerard Schmit, nel 2003 hanno scritto un libro molto interessante. Il titolo in italiano è L’epoca delle passioni tristi[1]. Quello originale, in francese è più completo: Le passions tristes. Souffrance psychique et crise sociale. Sostengono che le crisi individuali da loro incontrante nella pratica clinica risultano inscritte in una crisi più generale, della società e della cultura. Inserendosi una ricca scia di analisi di questo tipo anche loro parlano di fine della modernità, caratterizzata (questa crisi) dal venire meno “di quella credenza che stava a fondamento delle nostre società e che si manifestava nella speranza di un futuro migliore e inalterabile: una sorta di messianismo scientifico che assicurava un domani luminoso e felice, come una Terra promessa” (p. 17).
Questa crisi ha portato a un cambiamento di segno del futuro. Dal segno + passiamo al segno -. Nel guardare al domani siamo passati da una dimensione di speranza e di fiducia a una diffidenza estrema.[2]
Attenzione, però, perché Il futuro non rappresenta solo la dimensione temporale di ciò che accadrà domani o dopodomani, ma anche ciò che ci distacca dal presente, ponendoci in una prospettiva, in una proiezione, fuori da noi stessi. Negli anni (secoli precedenti), quando l’uomo guardava al futuro, credeva:
- che attraverso la scienza avremmo curato e guarito malattie molto gravi.
- Che attraverso la conoscenza avremmo risolto tutti i problemi relativi alla nostra insufficienza
- Che attraverso la politica avremmo creato un luogo con meno ingiustizie, con più felicità.
Abbiamo vissuto in un tempo caratterizzato da un “non ancora” ricco di speranza. Aggiungerei al “non ancora” anche un “altrove”. Ricchi di segni +. Insomma un Occidente che ha interpretato la storia dell’umanità come inevitabilmente una storia di progresso.
Oggi, invece, viviamo in “un clima di pessimismo che evoca un domani molto meno luminoso, per non dire oscuro… Inquinamenti di ogni tipo, disuguaglianze sociali, disastri economici, comparsa di nuove malattie: la lunga litania delle minacce ha fatto precipitare il futuro da un’estrema positività a una cupa e altrettanto estrema negatività” (p. 20).
Durante il XX secolo assistiamo a questo capovolgimento: dalla promessa alla minaccia. Ecco qui le passioni tristi (di Spinoza). Riferite non alla tristezza del pianto, ma all’impotenza e alla disgregazione.
In questo cambiamento di segno io vedo una motivazione centrale del fenomeno che cerchiamo di affrontare insieme questa sera.
Questo cambiamento interviene sul “senso” che diamo alla vita o sull’assenza di senso. Viviamo in un perenne stato di emergenza, in cui il mondo resta incomprensibile e non si intravede la via di uscita. Mancano quel “non ancora” e quell’altrove che ci permettevano di vivere qui, ma proiettati… Ci si sente inchiodati al presente, impotenti e quindi arrabbiati. [Personalmente questo ragionamento mi dà una chiave di lettura anche utile a comprendere il fenomeno del terrorismo religioso che prende piega, con una certa facilità, proprio tra i ragazzi di seconda generazione cresciuti in Europa, ma ai margini di questa società (accolti, ma non inclusi).
- Viviamo nell’epoca dell’io minimo, dello sguardo volto all’indietro, dove negli animi di tanti italiani ed europei albergano umori rancorosi e comportamenti razzisti, nei quali gli ideologi dei nuovi fascismi trovano terreno fertile per gonfiare il petto in pubblico e fare proseliti, convogliando quegli umori violenti verso la ricerca di capri espiatori (una dinamica molto precisa, che nel Novecento raggiunse il suo culmine nel progetto nazista di sterminio degli ebrei)?
- Per contrastare tutto questo non basta opporre ideologie alternative. Dobbiamo passare dalla comprensione delle delusioni, delle sconfitte, delle solitudini di tante donne e di tanti uomini che dalla democrazia, dall’estensione dei diritti, dallo stato sociale e dal benessere economico si aspettavano ben altro.
- Dobbiamo ricollegare politica e pedagogia sociale. Qui, oggi, abbiamo solo il tempo delle domande, che, però, come sappiamo sono più importanti delle risposte, soprattutto in tempo di crisi:
- Dobbiamo porci il tema dell’alfabetizzazione. Come facciamo a far sì che masse di “analfabeti di ritorno” prendano coscienza della condizione che stiamo vivendo e decidano di partecipare al percorso di emancipazione collettiva?
Conosciamo tutti la celebre frase di Antoine de Saint-Exupery:
Se vuoi costruire una barca non radunare uomini per tagliare la legna, dividere i compiti e impartire ordini, ma insegna loro la nostalgia per il mare vasto e infinito.
Non ce la caveremo con la prosa. Servirà la poesia. Qualcosa di più grande che metta in moto, che parli agli aspetti più profondi dell’essere umano; abbiamo bisogno di trovare il modo di uscire da noi stessi e di far sì che le tante persone rannicchiate e ripiegate, preoccupate a sopravvivere facciano lo stesso, tornando a vivere, proiettati in avanti? Certo non lo si fa spiegando la lezione. La storia ci insegna che quando c’è la poesia, il sogno, la passione, allora anche le condizioni materiali più disperate non sono da ostacolo, anzi!
Guardate, non credo che sia un caso, che in questa epoca stia tornando a crescere il sentimento religioso, o il bisogno, anche falso, di qualcosa che vada oltre. Anche il fenomeno che vede crescere i terroristi nostrani proprio tra le fasce più ai margini della nostra società, dovrebbe dirci molto, sotto questo punto di vista.
Provando a stare sulla poesia, vi offro questa ultima analogia, partendo da un testo di Christos Yannaràs, teologo ortodosso:
Se ti sei innamorato almeno una volta, sai orami distinguere la vita da ciò che è supporto ideologico e sentimentalismo, sai ormai distinguere la vista dalla sopravvivenza. Sai che la sopravvivenza significa vita senza senso e sensibilità, una morte strisciante: mangi il pane e non ti tieni inpiedi, bevi l’acqua e non ti disseti, tocchi le cose e non le senti al tatto, annusi il fiore e il suo profumo non arriva alla tua anima. Se però l’amata è accanto a te, tutto, improvvisamente risorge, e la vita ti inonda con tale forza che ritieni il vaso di argilla della tua esistenza incapace a sostenerla. Tale piena della vita è l’eros.
Non parlo di sentimentalismi e di slanci mistici, ma della vita, che solo allora diventa reale e tangibile, come se fossero cadute squame dai tuoi occhi e tutto, attorno a te, si manifestasse per la prima volta, ogni suono venisse udito per la prima volta, e il tatto fremesse di gioia alla prima percezione delle cose.
Tale eros non è privilegio né dei virtuosi né dei saggi, con pari possibilità. Ed è la sola pregustazione del Regno, il solo superamento della morte. Poiché, solo se esci dal tuo io, sia pure per “gli occhi belli di una zingara”, sai cosa domandi a Dio e perché corri dietro a Lui.
Il tema oggi è come promuoviamo il passaggio dalla sopravvivenza alla vita?
Come può la politica tornare a essere un atto d’amore? Percepito come tale?
Come passione per l’uomo?
(La fede nella sua vocazione a essere di più mentre le condizioni storiche lo costringono a essere di meno
La storicità delle condizioni dell’essere umano e quindi la responsabilità che da essa deriva.)
La proposta
Prepariamo un documento/appello per l’assemblea del 21 aprile, o quando sarà. Mentre si decidono tutte le cose importanti che ci sono sul tavolo si impegni la segreteria nazionale a farsi parte attiva presso il PSE e con tutte le forze politiche che ad esso aderiscono per organizzare, subito, una Internazionale permanente (oggi sarebbe più corretto chiamarla una Inter-dipendenza permanente) per:
- Provare a sviluppare un’analisi condivisa sui problemi fondamentali di questo momento storico e sulle politiche utili a risolverli, su un piano internazionale. Livello minino: l’Europa
- Dotarsi di un’organizzazione che renda strutturale l’inter-dipendenza tra il livello locale e il livello internazionale
Questo credo debba essere l’orizzonte entro cui muoversi. Superando la dimensione nazionale e affrontando quella che Jurgen Habermas ha definito già alla fine degli ani ’90 la costellazione post-nazionale. Ci diceva Habermas: “o saremo in grado di rispondere a questa sfida oppure dovremo rassegnarci all’idea che impariamo solo dalle catastrofi”.
Ma noi non ci rassegniamo.
Grazie.
[1] Feltrinelli, 2004.
[2] Zigmunt Baumann, nel suo ultimo libro, ha parlato, in questo senso di Retrotopia.