Ė stato un onore celebrare, nella mattinata di oggi, il 25 aprile a Borgomanero. Nella mia orazione ho voluto ricordare i valori dei tanti che scelsero di prendere in mano il proprio destino e lottare per la libertà. Gli stessi principi che ispirarono i padri costituenti e che spetta a noi testimoniare ogni giorno con impegno e la capacità di interpretarli nel contesto attuale.
Qui di seguito il mio intervento integrale:
Oggi non siamo qui per una commemorazione, ma per una festa! Una comunità che non sa gioire è povera, è persa. Non dobbiamo perdere la capacità di gioire e di ri-trovarci per festeggiare le cose importanti. Oggi stiamo facendo questo.
Vorrei cominciare questo mio breve intervento con un GRAZIE. Grazie a tutte le donne e gli uomini, perlopiù giovani, della Resistenza. Perché il primo sentimento che sento alla vigilia di ogni 25 aprile è quello della gratitudine. Oggi noi respiriamo la libertà come l’aria, non sappiamo cosa significhi stare senza, diamo per scontato la vita in un contesto democratico. Possiamo votare, esprimere le nostre opinioni, associarci con altri liberamente, iscriverci a un partito, fondarne uno nuovo… e ancora possiamo andare a scuola, curarci se ci ammaliamo. Per questo dico grazie alle donne e agli uomini che parteciparono alla Resistenza, contribuirono a sconfiggere il nazi-fascismo, consegnandoci un patrimonio culturale, politico e sociale prezioso e da custodire gelosamente.
Non sta a me proporvi un’interpretazione esaustiva di quanto accaduto più di 70 anni fa. Non sono uno storico e ci sono persone e opere che possono farlo meglio del sottoscritto. Quando parliamo di Resistenza mettiamo insieme almeno due livelli: quello delle storie individuali delle donne e degli uomini (perlopiù giovani) che scelsero da che parte stare pagando prezzi altissimi e il livello simbolicodell’insieme di queste scelte, che ha influenzato e continua a influenzare l’identità collettiva dell’Italia nata dopo la seconda guerra mondiale. Oggi ricordiamo un momento di storia cruciale, che ha cambiato la nostra storia. Per dirla con le parole di Norberto Bobbio: «questa guerra e questo movimento stanno alla base dell’Italia contemporanea. Non posiamo capire quello che siamo oggi senza cercare di capire quello che è avvenuto in quegli anni. La Resistenza è stata una svolta che ha determinato un nuovo corso della nostra storia: se la Resistenza non fosse avvenuta la storia d’Italia sarebbe stata diversa, non sarebbe stata la storia di un popolo libero».
Bene, io, oltre a condividere queste parole, credo che il senso di giornate come questa stia in questo legame tra il passato e il presente, tra ciò che accadde ieri e tra ciò che accade oggi, in vista di ciò che costruiamo per il futuro. In questo senso la memoria è fondamentale per l’identità personale e collettiva. Ed ha senso solo se affianco ad essa ne mettiamo un’altra: IMPEGNO. Perché con l’impegno, oggi rendiamo presente quel passato… non facciamo una rievocazione che appartiene al passato. Lo rendiamo presente “in una maniera nuova”, capaci di interpretare i problemi, le storture del nostro tempo, che prima di tutto non ci sono indifferenti. La nostra deve essere una memoria di uomini impegnati. Le domande cambiano, i tentativi di risposta anche. Ricordiamo per rifare le stesse cose? No. Ricordiamo per lasciarci interrogare su come quei valori, quelle visioni, l’anelito di libertà che mise in moto quegli uomini e quelle donne, oggi influenzano le risposte che noi diamo alle sfide dell’oggi.
Nella giornata della memoria e dell’impegno in ricordo di tutte le vittime innocenti delle mafie (il 21 marzo), con Libera leggiamo i nomi di tutte le vittime. Perché? Essere chiamati per nome, significa essere “presenti”. Significa che noi rendiamo presenti le vite e le storie che gli altri, i mafiosi hanno voluto cancellare. Ricordando, chiamando di nuovo per nome, facciamo memoria selettiva… portiamo con noi le cose importanti. Quel sacrificio, quella morte, non vanno dimenticati, anzi, dobbiamo portarli con noi, perché in tutto questo ci riconosciamo, decidiamo chi vogliamo essere..
Oggi mi sarebbe piaciuto leggere ad alta voce i nomi di tutti quei giovani, quegli uomini e quelle donne che pagarono un prezzo altissimo per la scelta di opporsi al nazi-fascismo. Furono incarcerati, torturati, uccisi. E chi è scampato a tutto questo ha visto morire o torturare i suoi affetti più cari. Non è possibile, oggi, purtroppo, chiamarli tutti. Ma non possiamo qui, a Borgomanero, non ricordare Ernesto Mora edEnzo Gibin, torturati e uccisi dai fascisti quando mancavano due mesi alla Liberazione (23 febbraio 1945).
E’ davvero inteso, commovente, leggere le lettere dei condannati a morte della Resistenza. Invito chi non lo avesse fatto a leggerle. Sono ricche dell’umanità migliore, di una verità disarmante. Due cose, però, mi colpiscono più di tutto. La prima è la capacità e la forza che quegli uomini e quelle donne ebbero di trovare unità nelle diversità. «Cattolici, comunisti, liberali, socialisti, azionisti, monarchici, anarchici, trovarono intesa ideale e organizzativa sotto il comune obiettivo della democrazia e della libertà». E’ uno degli insegnamenti più importanti e che andrebbe recuperato: ci sono valori per i quali occorre essere capaci di camminare insieme.
La seconda è la semplicità, la profonda umanità che emerge da quelle lettere. Non ne viene fuori un dipinto di eroi, di super-uomini. Al contrario: persone normali, che in una forte situazione di oppressione seppero dire un “no”, che poi è diventato un forte “si”, un impegno forte per il cambiamento.
Che siano da sprone per ognuno di noi a non piegare la testa di fronte alle difficoltà e alle ingiustizie; a non girarci dall’altra parte, a saper pagare prezzi alti per vedere realizzate le cose in cui crediamo. A non venderci, mai, ma anche a superare narcisismi e settarismi per imparare di nuovo a camminare insieme, almeno sui valori fondanti del nostro vivere insieme.
Sulla porta del municipio di Invorio c’è una frase bellissima, presa dall’epigrafe di Piero Calamandrei, scritta in risposta alle affermazioni del camerata Kesserling (nel 1952): «che volontari si adunarono per dignità e non per odio decisi a riscattare la vergogna e il terrore del mondo». I grandi progetti non sono mossi da sentimenti negativi. Possono anche partire da quelli, ma per stare in piedi, reggere nel tempo, devono avere una spinta positiva. Il movimento dei partigiani fu positivo: per dignità, per amore, consapevoli che sotto una certa soglia di la dignità del genere umanoera in pericolo. Non bisogna accettare che questo accada. Non solo per sé, per il proprio benessere, ma perché alcuni eventi sono vergona e terrore del mondo intero.
Questo ci porta al secondo aspetto di questa giornata. A quello simbolico, che ci fa guardare alla Resistenza come mito fondativo. Imiti servono non solo a illuminare il passato, a rispondere alla domanda da dove veniamo? ma anche a interrogare il presente e indicare la strada da percorrere per il futuro: chi siamo? Dove andiamo? Ce lo ricorda molto bene Gustavo Zagrebelsky:
«il mito fondativo è l’essenza di un’identità collettiva… il mito non può essere cristallizzato, non deve fossilizzarsi in vuota retorica celebrativa, in folklore. Deve essere costantemente rivitalizzato attraverso una dialettica tra l’arcaico e l’attuale».
C’è molto in quello che sta accadendo nel presente che va rivitalizzato attraverso il nostro mito fondativo, la Resistenza.
Noi abbiamo una fortuna in più. Oltre ad avere un mito, abbiamo anche qualcosa di concreto, che da quegli anni scaturisce, che ci fa da cartina di tornasole sul rapporto tra arcaico ed attuale: è la Costituzione. Senza Resistenza non avremmo avuto questa bellissima Costituzione. E la distanza dai principi indicati nella Costituzione è la misura della nostra distanza dalla Resistenza.
Su questo solco non possiamo sottrarci, allora, alla domanda fondamentale di giornate come quella di oggi: Quanta liberazione ancora “da fare”? E questa tocca a noi!
Non abbiamo tempo, oggi, per entrare nel merito delle tante liberazioni necessarie. Proviamo a scorrere solo i titoli.
Mafie e corruzione
Non possiamo oggi elencare le molteplici inchieste che negli ultimi anni, ancora, hanno caratterizzato i nostri territori, portando all’arresto di centinaia di persone tra Piemonte e Lombardia. Dico, però, che fino a quando questo paese non si libererà delle mafie e della corruzione, non sarà un paese libero. E questo oggi ce lo dobbiamo dire. Perché le mafie sono sofferenza, morte, soprusi, legge del più forte contro uguaglianza di fronte alla legge. Questa lotta deve diventare una priorità a ogni livello possibile: dal singolo cittadino alle massime istituzioni. Ancora non è così. Dobbiamo fare di più per liberare i tanti oppressi dal giogo dell’oppressione mafiosa e per riappropriarci delle tante, tante risorse che vengono sottratte illecitamente alla collettività.
Disoccupazione
Anche qui solo poche parole. L’articolo 1 della nostra Costituzione ci dice che la nostra Repubblica è fondata sul lavoro. Cosa vuol dire? Perché? Oggi non c’è il tempo… Però sappiamo tutti che senza lavoro non c’è inclusione nella cittadinanza. Non esistono diritti civili e politici senza i diritti sociali fondamentali. Non a caso, l’art. 3 è lo svolgimento del tema indicato nell’art. 1. Se le persone non sono libere dalla fame, dalla paura per sé e per i propri cari difficilmente saranno cittadini nel senso pieno del termine: membri di una comunità e responsabili del futuro di essa.
Allora non possiamo accettare la disoccupazione (oggi al 12%) come fisiologica. Non possiamo accettare che si pongano le basi di un conflitto generazionale tra giovani che non entrano mai nel mondo del lavoro e persone anziane che non riescono a uscirne. E un dato, come quello relativo alla disoccupazione giovanile, che ci parla di oltre il 40% dei nostri ragazzi a casa, ci racconta di un paese che non sta crescendo cittadini liberi e responsabili.
Sperequazione e disuguaglianza.
Sempre meno persone possiedono la maggior parte delle risorse e delle ricchezze. Pochi individui hanno ricchezze pari a quelle di intere nazioni. E anche nelle nostre società, la forbice tra i pochi ricchi e i tanti poveri aumenta sempre di più.
Dobbiamo invertire la rotta, cercare condizioni in cui ci sia il necessario per tutti. L’economia e la finanza devono tornare al servizio dell’uomo.
Crisi sociale ed ecologica
Abbiamo bisogno di cambiare i paradigmi culturali di riferimento. La crisi ecologica che stiamo vivendo non è più un problema di ambientalismo. Mette in gioco la nostra stessa sopravvivenza e ha conseguenze sociali gravissime soprattutto nei paesi in via di sviluppo.
Le guerre
Il pianeta è devastato da tantissimi conflitti. In più occasioni il Papa ha parlato della III guerra mondiale, denunciando i conflitti presenti nei diversi luoghi. Lungi dall’essere diventato un tabù, come avevamo sperato, la guerra resta lo strumento più utilizzato per la risoluzione dei conflitti.
La grave crisi sociale ed ecologica, le tante guerre creano oggi diseguaglianza, oppressione, fame, violenza, ingiustizia, morte. Di fronte a tutto questo, masse di oppressi si spostano, in fuga da povertà, miseria e morte. Lo vediamo, con il rischio di assuefarci, tranne qualche piccolo risveglio ogni tanto, tutti i giorni: in tv, sui social. Migliaia di persone, uomini, donne, bambini che in condizioni disumane si muovono per sfuggire all’oppressione spinti dalla speranza di un futuro migliore per se per i propri bambini.
Angus Deaton (nobel per l’economia nel 2015) la definisce la grande fuga.
La fuga più grande nella storia dell’umanità è la fuga dalla povertà e dalla morte. Per migliaia di anni le persone che, favorite dalla sorte, erano sfuggite alla morte nell’infanzia hanno dovuto affrontare un’esistenza nella più sconcertante miseria. Grazie al pensiero illuminista, alla rivoluzione industriale e alla messa a punto della teoria microbica delle malattie, le condizioni di vista sono straordinariamente migliorate, il numero di anni da vivere è più che raddoppiato e l’esistenza è diventata più ricca e gradevole…. La grande fuga ha cambiato radicalmente le cose per quelli di noi che sono diventati più ricchi, sani, alti, robusti e colti dei propri nonni. Ma ha inciso profondamente anche in un senso diverso e meno positivo: perché buona parte della popolazione mondiale è stata lasciata indietro, perché il pianeta è immensamente più disuguale di quanto fosse trecento anni fa.
Abbiamo accettato che il mare mediterraneo diventasse il più grande cimitero della storia umana. E di fronte a tutto questo, l’Europa nata dalla seconda guerra mondiale, che ha conosciuto l’orrore e ha gridato “Mai più!”, che fa?
Costruisce muri, chiude le frontiere, confonde il diritto di tutti con il privilegio di pochi e dimentica anche gli aspetti più elementari di umanità. Dimentica di essere stata umiliata, schiacciata, di avere avuto la guerra in casa, fame, povertà, morte. Dimentica che ogni uomo ha diritto a vivere dignitosamente.
Noi questo non lo possiamo accettare. Un’Europa così non ci serve, è una somma di egoismi. E sappiamo, soprattutto, oggi che questo porta con sé solo tragedie. C’è bisogno, invece, oggi ancora di più, di tessere le trame di una convivenza possibile nelle diversità, di tornare a essere “costruttori di ponti e saltatori di muri” come ci ha insegnato Alexander Langer.
Dobbiamo trovare il modo, tutti insieme, di superare i muri dell’egoismo e dell’indifferenza. Eh si, l’indifferenza. Ce l’hanno insegnato in tanti: Gramsci, Calamandrei… Oggi prenderò in prestito le parole di don Lorenzo Milani.
In lettera Lettera ai giudici a possiamo leggere:
Su una parete della nostra scuole c’è scritto grande “I care”. E’ il motto dei giovani americani migliori. “Me ne importa, mi sta a cuore”. E’ il contrario del motto fascista “me ne frego”.
“Mi sta a cuore”, “mi importa” è il fondamento di ciò di cui parliamo oggi. In opposizione a questo c’è il “me ne frego” fascista, il distratto, l’indifferente, che segue, consapevolmente o meno, il pensiero dominante, senza interrogarsi, senza alcuna criticità, preoccupato solo del proprio destino, dimentico che “noi siamo gli altri” e che il nostro destino è legato, sempre di più a quello dell’intera umanità. Se lasciamo che l’oppressione prenda piega, che il mondo diventi un luogo dove è normale la disumanizzazione, la mancanza di umanità, di solidarietà, di giustizia, ne siamo responsabili. Ma siamo anche sciocchi, perché noi non sappiamo dove sta il confine e chi lo mette. Un giorno, come ci ha insegnato Brecht, potrebbe toccare di nuovo a noi.
C’è un luogo comune dell’ideologia democratica molto forte, molto affermato: esso prevede che sia sufficiente diffondere i diritti di partecipazione, i diritti civili e in modo particolare il diritto di voto perché la democrazia si sviluppi. Questo luogo comune prevede che con la crescita della democrazia (più diritti, diritti per più persone) cresca automaticamente lo spirito democratico nelle persone. Spirito democratico che in essenza è quel I care di don Milani, in altre parole la dedizione agli altri, alla cosa pubblica, la disponibilità a mettere in comune energie e risorse.
Ma è davanti agli occhi di tutti come non sia così. Prendiamo come esempio il diritto di voto: pur essendo esteso a tutti vota una percentuale sempre minore. Anche l’Italia, che si è sempre distinta per l’alta partecipazione, negli ultimi anni è in controtendenza. Per le ultime Amministrative ha votato il 64,92% degli elettori, mentre alle Regionali il 53,90% (dati 2015).
L’estensione dei diritti politici non è sufficiente. La verità è che la democrazia, per sopravvivere in quanto tale, ha bisogno che ci si prenda cura dello spirito democratico, che esso si diffonda il più possibile, che cresca. Senza di esso si arriva a delle distorsioni della democrazia, dove viene mantenuta la forma democratica, ma la sostanza vede il potere nelle mani di pochi e la maggior parte degli individui esclusa da ogni forma di partecipazione, decisione, o potere.
La democrazia, quindi, per sopravvivere ha bisogno dello spirito democratico, ha bisogno di una pedagogia della democrazia che ha come perno la scuola e le politiche giovanili. Su queste due gambe costruiamo il futuro delle nostre comunità.
La maggior parte dei resistenti era giovane, basta soffermarsi sulle lapidi delle nostre città e delle nostre montagne per rendersene conto. Dobbiamo trovare il modo per far dialogare quei giovani e i nostri giovani affinché la passione che animò le loro scelte, gli ideali che guidarono il loro cammino contaminino i ragazzi di tutte le generazioni future.
Non solo dobbiamo custodire ciò che esiste (esempio gli Istituti Storici, all’ANPI), ma che promuovere (sempre di più) percorsi nelle scuole, per gli insegnanti e per gli studenti, percorsi extra-scolastici (pensate al progetto “Promemoria- Auschwitz, al Meridiano d’Europa) ed esperienze di incontro e confronto su questi temi che coinvolgano più persone possibili.
In questo senso il lavoro dell’ANPI, dell’Istituto Storico, di tante istituzioni, di tante associazioni sui nostri territori è fondamentale. Non solo non deve venire meno, ma deve essere ancora più intenso. Potrei portare tanti esempi. Oggi qui cito solo il progetto “promemoria Auschwitz” che da anni porta decine di ragazzi…, o il progetto “Meridiano d’Europa”. Solo così i nostri giovani possono comprendere le parole di Piero Calamandrei: «Dietro ogni articolo della Costituzione, o giovani, voi dovete vedere giovani come voi che hanno dato la vita perché la libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa Carta». Senza un’esperienza a cui collegare la riflessione il messaggio non passa. Noi dobbiamo sentire la responsabilità di costruire questi percorsi. Perché dobbiamo sconfiggere il pericolo più grande: l’INDIFFERENZA. C’è un solo modo per commemorare la liberazione: quello di impegnarsi. Siamo di fronte al diffondersi di una sfiducia crescente nei confronti delle istituzioni e in particolare della politica. Dobbiamo invertire la rotta, cominciare la risalita: i cittadini devono tornare a votare, ma soprattutto a impegnarsi direttamente per il bene comune nelle sue diverse forme, nelle associazioni e in politica (si, in politica. Non è una parolaccia): «In una democrazia – diceva Norberto Bobbio – non si possono tollerare gli assenti. O per lo meno, se un giorno gli assenti dovessero diventare maggioranza, la democrazia avrebbe cessato di esistere».
E allora ancora una volta nel ricordare la Resistenza, dobbiamo ricordare a noi stessi che il “no” che seppero dire era un forte “si”: alla vita, alla solidarietà, alla compassione. Oggi sta a noi, saper dire quei sì rispondendo alle sfide odierne. Sta a noi trovare il modo di “liberarci insieme” da mafie, corruzione, diseguaglianza, ingiustizie, a sognare un’Europa unita, aperta, solidale, a cercare “nelle ragioni della lotta d’allora le ragioni della convivenza di oggi”.
ORA E SEMPRE RESISTENZA!