Come tutti anche io sono molto turbato da quanto accaduto ieri notte a Parigi. Il miscuglio di emozioni negative che suscita il terrorismo è particolare, diverso da altri eventi drammatici che pure siamo spesso chiamati ad affrontare. Terrore, paura… insicurezza.
Ho ascoltato e letto le reazioni: dalla paura, allo sdegno, all’odio…. C’è chi sa cosa dice, chi, purtroppo, non perde occasione per strumentalizzare alimentando le disgregazioni esistenti.
Sento il bisogno anche io di provare a mettere in fila alcuni pensieri che da ieri sera affollano la mia testa.
Viviamo in quella che è stata definita l’era planetaria dove la caratteristica principale è l’interconnessione tra le diverse parti e i diversi eventi del mondo. Per migliaia di anni, nella storia dell’umanità, ciò che avveniva in Africa o in Asia non aveva alcun risvolto in Europa o tantomeno in ciò che oggi chiamiamo America. Le cose sono cambiate, e di molto, con l’intensificazione degli scambi commerciali prima, e con l’avvento della mondializzazione poi. Immediatamente ciò che prima era separato, lontano è diventato vicino e collegato. Cambia tutto. E non ce ne accorgiamo, non nella nostra vita quotidiana e nei nostri discorsi ordinari, dove questo fa fatica a diventare presupposto… Abbiamo sempre bisogno di ricordarcelo. E’ la guerra a ricordarci come stanno le cose, una guerra che è cambiata nelle modalità e nelle forme. Molto lucidamente, più di quanto all’epoca comprendemmo, il Papa la definì (e lo ha ribadito commentando i fatti di ieri sera) la terza guerra mondiale. Questa volta, però, è mondiale in un senso diverso: non perché a catena coinvolge sempre più stati che entrano in guerra l’uno contro l’altro, ma perché mette in correlazione diretta i molteplici conflitti aperti nelle diversi parti del pianeta. Siamo lontani anni luce dagli anni ’90 quando l’occidente poteva immaginare di portare avanti la destituzione di Saddam Hussein senza immaginare conseguenze immediate sul proprio territorio. Oggi non è così: chi sparava ieri notte a Parigi, oltre a inneggiare al proprio Dio, diceva freddamente che agiva per vendetta nei confronti dei fratelli siriani. Questo è possibile solo oggi, in questa epoca, almeno nelle forme e modalità assunte, diventate tali da destabilizzare il nostro stile di vita.
Se siamo in guerra, però, la prima cosa da fare è capire chi è il nemico, chi ci sta attaccando. E’ una sciocchezza immaginare che il nemico sia l’Islam, un errore afferente i tipi logici: sarebbe come dire che tutti i cattolici sono lefebvriani o che tutti gli ebrei sparsi sul pianeta negli anni ’30 del XX secolo appartenessero all’organizzazione Irgun. L’ISIS rappresenta una gruppo all’interno del mondo musulmano. Se vogliamo affrontarlo e sconfiggerlo sarà necessario identificarlo con chiarezza da un punto di vista militare e comprendere su quali basi cerca di allargare il proprio consenso all’interno del mondo musulmano più allargato. E mentre si agisce sul versante militare agire contemporaneamente sul piano politico per eliminare le possibili cause di allargamento del consenso. Se guardiamo alla storia dei terrorismi vediamo con chiarezza che essi sono terminati quando insieme a un’efficace azioni militare si sono esaurite le cause politiche che li avevano generati. Si pensi, solo per fare degli esempi, alle Brigate Rosse in Italia, all’IRA in Irlanda o alle mafie. Senza un’azione politica, la sola azione militare rischia anche di essere controproducente e di alimentare la forza simbolica delle organizzazioni terroristiche. Esse vanno battute prima di tutto sul versante simbolico e politico svuotando il loro potenziale di consenso e reclutamento.
Allora mentre si elabora una strategia militare, sarebbe meglio cominciare a chiedersi seriamente quali sono le conseguenze degli interventi occidentali nel resto del mondo, smettere di esportare conflitti e armi, sostenere i gruppi pacifici che sono portatori di istanze di cambiamento e corroborare tutte le alleanze e i dialoghi possibili con i mussulmani che hanno scelto la via della convivenza, che sono la maggior parte, come tutti coloro che sono scesi in piazza oggi nel mondo e che hanno dichiarato not in my name. Non sconfiggeremo i terroristi se prima non li avremo isolati.
In tutto questo credo sia necessario guardare con attenzione allo sviluppo della tecnologia e dei social network (che porta con sé tante cose positive) almeno per quanto riguarda due aspetti. Il primo è quello della possibilità offerta di comunicare e di collegare luoghi del mondo con estrema facilità. Dall’operazione effettuata nei giorni scorsi dai Ros italiani, che ha portato all’arresto di presunti terroristi che progettavano attentai in Italia, si evince l’esistenza di un’università telematica online, dove i terroristi dovevano formarsi sostenendo dei regolari esami. Non è sufficiente essere pronti a farsi saltare in aria per appartenere a una cellula terroristica: occorre condividere una visione, dei saperi. Lo stato attuale delle nostre tecnologie permette di collegare migliaia di persone con una facilità e immediatezza tali che anche solo 15 anni fa erano impensabili. Al di là delle considerazioni sui nostri apparati di sicurezza e di intelligence, figli di un’altra epoca e in forte difficoltà ad affrontare questa nuova situazione, credo che il rischio più grande, e questo è il secondo aspetto di cui parlavo, è quello relativo al simbolico, alla creazione di quelle identità collettive che costituiscono al struttura della storia. Chi sono io? A quale gruppo appartengo? Alla famiglia, alla tribù, alla città, alla classe sociale, alla nazione…? Che cosa consente, rende possibile la contrazione di tempo e spazio derivanti dalla rivoluzione dei trasporti delle comunicazioni? Quale nuovo mondo, diverso da quello di prima abitiamo? Per costruire identità collettive servono: condivisione del luogo, condivisione del linguaggio, condivisione dei valori. Per fare questo, fino a pochi anni fa, occorreva vivere in prossimità. Per esportare o diffondere delle idee o dei valori servivano anni, generazioni… Oggi tutto questo avviene in tempi e spazi profondamente ravvicinati. Ecco l’interconnessione profonda, la nuova struttura, che manda all’aria tutto ciò a cui siamo abituati e che ci portiamo dentro anche come categorie interpretative della realtà. Non esistono più conflitti locali: potenzialmente ogni conflitto locale è globale. La peculiarità di quanto avvenuto ieri a Parigi, dal mio punto di vista, è in questo passaggio che ho provato a descrivere. Non esiste guerra all’ISIS che può avvenire solamente in Siria o in Iraq… semplicemente perché l’ISIS non è solo lì: è anche a Parigi, a Londra, a Roma… Perché oggi le distanze (rassicuranti) a cui siamo abituati semplicemente non esistono più.
E tutti coloro che invocano chiusure e difese semplicemente ignorano che o saremo in grado di affrontare questa guerra con i nuovi presupposti e con relativi nuovi strumenti oppure semplicemente ci condanneremo da soli a vivere nella paura e nel terrore perché i fenomeni a cui assistiamo non dipendono solo dalla follia terroristica di alcuni uomini, ma dalle possibilità che il mondo che abbiamo creato e in cui viviamo, dà a questa follia. Che ha forze e possibilità inedite.
C’è poi il circolo vizioso in cui rischiamo di infilarci come occidente, dove ogni nazione, proprio perché spaventata, tende a chiudersi e a rifugiarsi nell’innalzamento di barriere e muri. Questa per alcuni può sembrare una soluzione diventerà sempre di più parte del problema, soprattutto se contestualmente dovesse esserci un disinvestimento nei confronti delle istituzioni internazionali.
Spesso si cita Samuel Hungtington con riferimento al suo “Scontro di civiltà” (spesso frainteso). Ritengo molto più interessante, invece, per quanto sta accadendo le tesi che egli propone in Ordine politico e mutamenti sociali. Qui, semplificando molto, si afferma che non esiste correlazione diretta tra un certo tipo di condizioni socio-economiche e la stabilità politica, e, soprattutto, che il processo di cambiamento socio-economico porta con sé destabilizzazione politica. Solo istituzioni forti sono in grado di evitare il disordine. Dove per forza si intende la capacità di governo, di governare. Su questo c’è il discrime fondamentale dei governi. E’ sulla capacità di governare non sulla forma del governo. Essere capaci di aver dente sulle società. Di coinvolgerle nelle istituzioni politiche. Di Arrivare ai comportamenti sociali e regolarli.
Noi oggi siamo di fronte a processi di cambiamento planetari che stiamo affrontando con istituzioni internazionali debolissime, che non hanno alcuna capacità di coinvolgere e regolare i comportamenti collettivi. Mentre “le forze del disordine” si muovono a livello planetario noi pensiamo di uscirne rifugiandoci nella nazione. In questa maniera saremo vittime del disordine. Al contrario, credo, dovremo essere capaci di rafforzare, o creare ex novo se necessario, istituzioni capaci di agire, con sempre più forza a livello planetario.