Grazie presidente
Il mio intervento avrà tre passaggi.
- Una premessa antropologico-culturale, che afferisce al pre-politico
- Un passaggio sui miti
- Che fare
1. Le persone si spostano a causa di gravi eventi traumatici come guerre o calamità naturali o perché intravedono la possibilità di migliorare la propria condizione di vita. Lo fanno come singoli, ma spesso come gruppi e qualche volta come interi popoli. Anche la nostra epoca non sfugge a questo fenomeno. Lo abbiamo visto nel XX secolo e lo stiamo vedendo in questi giorni, mesi e anni. Sono tanti i passaggi e sono tali (scusate il gioco di parole) da costituire un “passaggio d’epoca” (come ci ha raccontato Alberto Melucci). Un passaggio d’epoca che nasce dalla crisi di alcune idee fondamentali che hanno caratterizzato gli ultimi 300 anni. Tra queste certamente l’organizzazione della convivenza tra i popoli attraverso lo Stato-Nazione. La globalizzazione in primis ci ha traghettato in quella che Edgar Morin ha definito l’era planetaria dove la Terra, il Pianeta è Patria per l’umanità, dove gli uomini e le donne, al di là delle differenze, sono accomunati da una “comunità di destino”.
La stessa idea che Papa Francesco esprime nell’enciclica Laudato si quando ci parla della terra come di un’unica casa comune di cui siamo chiamati a prenderci cura.
“Dalla metà del secolo scorso, superando molte difficoltà, si è andata affermando la tendenza a concepire il pianeta come patria e l’umanità come popolo che abita una casa comune. Un mondo interdipendente non significa unicamente capire che le conseguenze dannose degli stili di vita, di produzione e di consumo colpiscono tutti, bensì, principalmente, fare in modo che le soluzioni siano proposte a partire da una prospettiva globale e non solo in difesa degli interessi di alcuni Paesi. L’interdipendenza ci obbliga a pensare a un solo mondo, ad un progetto comune.” (Laudato si’)
Una casa comune che è caratterizzata da squilibri forti di natura ecologica e sociale, dovuti, perlopiù, a scelte fatte dal mondo occidentale. Scelte, squilibri che alimentano quella che Angus Deaton (nobel per l’economia nel 2015) ha definito la grande fuga.
“La fuga più grande nella storia dell’umanità è la fuga dalla povertà e dalla morte. Per migliaia di anni le persone che, favorite dalla sorte, erano sfuggite alla morte nell’infanzia hanno dovuto affrontare un’esistenza nella più sconcertante miseria. Grazie al pensiero illuminista, alla rivoluzione industriale e alla messa a punto della teoria microbica delle malattie, le condizioni di vista sono straordinariamente migliorate, il numero di anni da vivere è più che raddoppiato e l’esistenza è diventata più ricca e gradevole…. La grande fuga ha cambiato radicalmente le cose per quelli di noi che sono diventati più ricchi, sani, alti, robusti e colti dei propri nonni. Ma ha inciso profondamente anche in un senso diverso e meno positivo: perché buona parte della popolazione mondiale è stata lasciata indietro, perché il pianeta è immensamente più disuguale di quanto fosse trecento anni fa”. (La grande fuga, p. 45)
Ora quando chi è rimasto indietro è costretto ad abbandonare casa sua o si accorge che in altri luoghi anche lui può migliorare la sua vita, allora prova anche lui a fuggire da povertà e morte. Aggiungo io, legittimamente.
Girava una vignetta nei mesi scorsi. Un adulto chiede a una bambina: ci sono stranierii nella tua scuola? No, da noi ci sono solo bambini
Ecco partirei da qui. Che cosa l’uomo oggi vede nell’altro uomo…?
La bambina, possiamo dire subito, vede un simile a sé… oppure vede nell’altro prima di tutto qualcuno simile a lei.
Se andiamo nel mondo degli adulti, invece, ai diversi livelli troviamo dell’altro.
Se ignorassimo questa domanda o se facessimo finta che non fosse importante inficeremmo tutti i discorsi successivi, perché essi dipendono inesorabilmente dalle premesse che poniamo alla discussione.
Una discussione caratterizzata dalla presenza di tanti miti e pregiudizi alimentati dalle paure.
- Arrivano tutti qui da noi
- Non possiamo accoglierli tutti
- Ci rubano il lavoro
- …
Basta fare una breve verifica con altri paesi, lontani e vicini per accorgersi che non è così:
- alla fine del 2014 quasi 60 milioni di persone erano costrette alla fuga. Di queste solo 137.000 sono arrivati via mare in Europa. La maggior parte delle persone in fuga è ospitata da Turchia, Pakistan, Libano, Iran.
- il Libano, ad esempio, accoglie più di un milione di profughi su circa 4 milioni di abitanti.
- che la maggior parte delle persone ospitate in Europa non è in Italia,
- dal 2008 al 2015 sono arrivati circa 800.000 migranti e rifugiati. Se anche fossero rimasti tutti si tratterebbe dello 0,17 % su circa 500 milioni di abitanti in Europa.
Siamo di fronte a una grande sfida a cui deve saper rispondere la politica.
Questa, però, dovrebbe muoversi partendo da visioni. se queste mancano gestisce l’esistente quando va bene. Quando va male insegue i voti. E se i voti chiedono sangue, difesa dei privilegi che si fa? Le visioni possono aiutare a tenere in equilibrio, diversamente si è in balia delle paure irrazionali o della ricerca di consenso. E questo è uno dei limiti più grandi delle democrazie, come ci insegnava già Platone.
Oggi, se guardiamo all’Europa, siamo alla somma degli egoismi.
Citando don Milani: “Il mio problema è uguale al tuo. Sortirne insieme è la politica, da soli è l’avarizia”.
Oggi siamo nel tempo dell’avarizia tra gli Stati e quindi delle non-soluzioni. Mancando visioni e progetti di largo respiro. Troppo spesso si parla e si insegue l’irrazionalità, la pancia. Ma sappiamo nella storia che cosa questo ha portato: solo tragedie.
Poi c’è anche il che fare qui ed ora. Come gestire e organizzare l’accoglienza.
L’Italia tratta come emergenza una situazione ormai strutturale da diverso tempo, con conseguenti grandi lacune sul piano della progettualità da affiancare all’efficenza logistica. Su questo siamo indietro.
I Comuni hanno invece la possibilità di ricorrere al sistema regolare, denominato SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati), partecipando ad appositi bandi. Parteciparvi è una pura scelta politica e in Piemonte questa scelta l’hanno presa solo 25 Comuni per poi lamentarsi delle concentrazioni in pochi comuni che avvengono tramite le assegnazioni fatte dalla Prefettura. Basterebbe un sistema di comuni più solidale per diminuire il ricorso ai bandi della prefettura.
Credo che qui la Regione possa giocare un ruolo importante. Aiutare/accompagnare i comuni nell’aumento della consapevolezza di questo momento storico, nell’elaborazione di progetti solidali, di integrazione, incentivando solidarietà, integrazione, senso di responsabilità, dove si torni a sentirsi non più minacciati dall’altro, ma responsabili verso l’altro superando la globalizzazione dell’indifferenza.
Diversamente l’emergenza l’avremo creata noi per incapacità ad affrontare le nuove sfide. Queste non diminuiranno solo perché noi non ne siamo all’altezza.
Ma quando la politica fallisce in questo, nella capacità di interpretare i cambiamenti e nell’elaborazione di strade per una risposta solidale ai bisogni, allora essa abdica alla sua funzione principale lasciando spazio a conflitti e violenza.