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Dirsi di sì nel Castello della legalità

_il-laureatoIn questi giorni ho ricevuto alcune lettere firmate da futuri sposi che loro malgrado avevano scelto come cornice per il ricevimento di nozze il Castello di Miasino. Le missive mi hanno suscitato alcune riflessioni, che forse rischiamo di dare per scontate.

La lotta alle mafie, da sempre, per essere incisiva deve camminare su due gambe: una è quella “repressiva” che appartiene a magistratura e a forze dell’ordine, alla legge; l’altra è la “pars construens” ed afferisce alla cultura, al lavoro e quindi alla cittadinanza, direi all’ethos di un popolo. L’una, senza l’altra, non può camminare. Se vogliamo vincere la partita dobbiamo farle funzionare entrambe.
Lo sgombero del Castello appartiene alla prima gamba, si tratta dell’ultimo atto di un percorso cominciato negli anni ’90. Personalmente non conosco le motivazioni per cui l’Agenzia Nazionale dei Beni Sequestrati e Confiscati abbia deciso di effettuare lo sgombero in questi giorni e con queste modalità. Certamente chi guida l’Agenzia a livello nazionale ha valutato che fosse arrivato il momento più opportuno.

Personalmente, prima da semplice cittadino impegnato nel volontariato e poi da Consigliere Regionale, ho, da un lato, denunciato una situazione ritenuta inaccettabile e ingiusta e, dall’altro, proposto una soluzione di utilizzo differente. Si tratta di una denuncia pubblica apparsa su quotidiani locali e nazionali e di cui si è parlato anche in telegiornali e programmi televisivi, ricostruibile con una semplice ricerca sui motori di ricerca: in provincia di Novara avevamo uno dei beni confiscati alle mafie più importanti in Italia che, di fatto, era gestito da una società riconducibile alla famiglia della persona a cui era stato confiscato. Nel 2007 la Cassazione aveva confermato in via definitiva tutto questo e da qualche anno vigeva un’ordinanza di sgombero a cui nessuno dava seguito.
A che cosa serve togliere un bene alla mafia se lo lasciamo andare in rovina o se peggio ancora lo lasciamo nelle mani di coloro ai quali lo confischiamo? La questione del riutilizzo sociale dei beni confiscati è uno dei temi più complessi, attualmente, in Italia. Tiene insieme diversi livelli istituzionali e porta con sé elementi simbolici e culturali fondamentali, dal mio punto di vista, per la coscienza collettiva del nostro Paese.
Quanto accaduto lo scorso 17 febbraio ha messo fine a una situazione umiliante per i cittadini e le Istituzioni del nostro Paese. In Italia ci sono migliaia di beni confiscati che rappresentano un potenziale enorme per lo Stato. Il problema è che una vasta fetta di questo patrimonio non è riutilizzato. Un’opportunità che non siamo in grado di cogliere. Grazie all’impegno di molti la vicenda Castello di Miasino è giunta ad una svolta decisiva.

Ai futuri sposi mi sento di dire che per quanto mi riguarda non considero chiusa la partita e sto mettendo in campo tutte le iniziative possibili perché si arrivi al più presto a un riutilizzo sociale del Castello di Miasino affinché esso produca lavoro e utilità sociale per le nostre comunità. Un percorso condiviso con l’amministrazione regionale che lunedì 2 marzo porterà in giunta il provvedimento a firma degli assessori Reschigna, Ferrari e Parigi. Gli assessori hanno anche dato mandato agli uffici al fine di valutare le possibili soluzioni per assicurare fin da subito un riutilizzo, anche in attesa del bando. Non escludo ed anzi auspico che al più presto vengano comunicate novità in questo senso, sperando che la normativa le permetta.

Concludo ricordando una celebre frase di Giovanni Falcone: “La mafia non è affatto invincibile; è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine …”  ma poi aggiungeva “Piuttosto, bisogna rendersi conto che si può vincere non pretendendo l’eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni”.

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