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C’è molto da imparare dalla crisi Afghana

In questi giorni si parla molto di Afghanistan. Stiamo assistendo a un passaggio storico che cambierà il futuro non solo di un singolo paese, ma dell’intera area per i prossimi anni.

Vedere un paese cadere nelle mani di un’organizzazione come quella dei talebani in pochi giorni e senza scontri dopo vent’anni di presenza militare straniera ha colpito molti di noi e lascia aperti tanti interrogativi. Così come preoccupa e allarma vedere oggi in pericolo la vita di coloro che hanno collaborato con le forze occidentali e i diritti elementari delle donne e delle minoranze. Per non parlare del dramma di chi sta perdendo la vita mentre tenta di scappare. Ancora una volta le vite individuali si intrecciano con le dinamiche storiche, perché poi sono sempre i singoli esseri umani a lottare, soffrire, morire. 

Molte analisi sono rivolte a scandagliare le ragioni del “fallimento” di questo intervento specifico e, più in generale, della strategia messa in campo dagli USA in Medio Oriente negli ultimi decenni. Altri interventi ci richiamano giustamente al dramma di chi pagherà il prezzo più alto per l’instaurazione del nuovo Emirato sotto la guida dei talebani: come aiutarli? Come non abbandonarli? 

Vanno bene entrambe, a patto che siano utili non solo a comprendere ciò che è successo, ma a capire cosa fare oggi e domani. Ciò che vent’anni fa sembrava ineluttabile ai più, oggi, improvvisamente, suona come sbagliato. Questo non deve stupirci. Il problema è che cosa fare ora, quali alternative costruire.

Se abbiamo imparato che non si “esporta la democrazia” con le armi, resta aperta e ancora più urgente la domanda su come e se intervenire laddove siano in pericolo le libertà fondamentali degli esseri umani, i diritti delle minoranze, delle donne e dei più deboli. Come fare in modo che non si intervenga per rispondere all’interesse di una potenza mondiale, ma per promuovere davvero qualcosa che vagamente si richiami a principi di giustizia internazionale. Su questo terreno di ragionamenti la posta in gioco è la credibilità delle istituzioni internazionali. Perché, per rimanere sempre in Afganistan, mentre gli USA si ritirano, Cina e Russia hanno deciso di restare. Esiste qualcosa di alternativo alla sola legge del più forte sul livello delle relazioni internazionali?

Lo stesso vale per il sostegno a chi fugge e a chi è rimasto. Sono lodevoli le iniziative dei sindaci, ma il terreno di gioco è probabilmente un altro. Cosa farà l’Europa? Si muoverà ancora una volta divisa, come purtroppo appare in queste prime ore? O sarà in grado di dare una risposta coordinata e condivisa, anche per provare a giocare un ruolo in quell’area e smettere di subire le scelte altrui?

Le immagini del nostro Ministro degli Esteri al mare durante le ore più difficili in Medio Oriente ci restituiscono un dato politico importante: non contiamo nulla come Paese in questa partita, al di là di ciò che pensiamo sulle qualità di chi ricopre temporaneamente quella carica. E questo è un problema che riguarda tutte gli stati europei e che resterà tale anche in futuro se non saremo in grado di cambiare schema. Bene ha fatto il Presidente del Consiglio a richiamare la necessità di un intervento comune a livello europeo, così come è positiva la lettera degli eurodeputati del PD che chiedono un Consiglio Straordinario. Si tratterebbe di primi passi importanti. Sarebbe bello vedere i rappresentanti dei governi europei, ma non solo, ritrovarsi per provare a cominciare a rispondere a due domande: come aiutiamo chi stiamo lasciando indietro e cosa facciamo da domani per evitare situazioni simili.

Siamo in una crisi di sistema importante. Saremo capaci di apprendere/cambiare anche sulla base degli errori fatti? O improvviseremo volta per volta cercando la risposta immediata all’interesse del più forte tra i giocatori?

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