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Una democrazia senza cittadinanza?

Domenica scorsa si è votato in Sicilia e ad Ostia. L’affluenza elettorale è stata rispettivamente del 46,76% e del 36,15%. Credo sia ormai evidente che ci troviamo di fronte a un fenomeno che non temo di definire inquietante: la rassegnazione e l’impotenza come scelta politica maggioritaria. In un sistema di democrazia rappresentativa non credo esista nulla di più grave, perché un astensionismo di questo tipo non è solo quantitativo, ma anche qualitativo e ci consegna delle istituzioni deboli, impossibilitate ad interpretare la volontà popolare e la mediazione tra i diversi interessi presenti nella società: istituzioni indebolite nella loro legittimità. Come si esprimerà il conflitto sociale in una situazione del genere? Si cercheranno strade fuori dalle istituzioni e fuori dalla politica.

Questo è pericoloso.


I primi commenti, tra ieri notte e questa mattina, si dividono tra chi “vincitori morali”, “prime forze del paese” e scaricabarile (perché è sempre responsabilità degli altri).

Io vedo un paese sconfitto, incapace di farsi carico della responsabilità del proprio futuro, con una classe politica che rischia di passare il tempo a guardare il dito e non la luna.

Il risultato di queste elezioni mi spinge a riprendere alcuni ragionamenti sul tema della partecipazione politica.

La tesi è semplice: l’astensionismo, nei sistemi di democrazia rappresentativa, è il problema primario.

Partiamo da alcune domande: a che cosa servono i governi e più in generale le istituzioni? Perché siamo arrivati a questo tipo di organizzazione della convivenza sociale e politica? Cercando di dirlo nella maniera più semplice possibile, possiamo affermare che nella storia si è reso necessario, in ogni epoca e in ogni contesto, il superamento (anche temporaneo) del conflitto degli interessi dei diversi gruppi in gioco in una data comunità, in vista di un interesse condiviso o comune, che superi e medi tra i diversi interessi di parte, al fine di evitare il conflitto perenne e garantire la convivenza pacifica dei diversi attori e gruppi.

E’ il concetto stesso di res publica che impone il superamento degli interessi particolari (di un singolo o di una comunità ristretta) a favore del bene comune e quindi dell’interesse generale. Chi è al potere e  applica questa logica può essere definito ‘Statista’, mentre chi insiste nel perseguire logiche ‘particolari’ e di corto respiro non è altro che un politico miope.

Ne vediamo tanti tutti i giorni, purtroppo.

La nostra storia ci ha portato a individuare nel sistema della democrazia rappresentativa, il modello e il metodo migliore (almeno fino a oggi), con i quali costruire e gestire questo equilibrio. In altri momenti storici e in altri contesti (anche odierni) sono in vigore altri modelli.

Nel modello della democrazia rappresentativa i partiti, e in particolare i partiti di massa, hanno fatto sì che il suffragio universale, faticosamente conquistato, trovasse una strada concreta e storica di applicazione. Senza di essi sarebbe restato un diritto sulla carta e l’occidente avrebbe continuato a essere governato da oligarchie borghesi o aristocratiche. Solo con il faticoso processo che vide le masse finalmente partecipare al meccanismo di selezione della classe dirigente e alla elaborazione delle scelte politiche ai diversi livelli la democrazia rappresentativa è diventato il sistema che ha garantito libertà, crescita, coesione sociale e, novità assoluta, la partecipazione delle classi subalterne.

Che cosa dà fondamento all’autorità? Alle istituzioni? Se in un sistema monarchico è la dinastia o il diritto divino e in quello oligarchico è l’appartenenza a un determinato gruppo, in democrazia è la rappresentatività del più alto numero di cittadini possibile. È questo l’elemento cruciale. Quale differenza c’è tra un’oligarchia e una democrazia rappresentativa (diversa dalla democrazia diretta)? Nella prima i pochi governano in quanto appartenenti a un gruppo, mentre nella seconda perché rappresentano un elevato numero di cittadini. Questo elemento è centrale perché il sentirsi rappresentati o meno, da parte dei cittadini, fa la differenza su quanta forza avrà quella determinata istituzione. In altre parole perché il cittadino deve adeguarsi alle decisioni prese dalle istituzioni? O meglio perché in alcuni paesi più facilmente i cittadini rispettano le leggi e le decisioni prese dalle istituzioni e in altri meno? Oltre ad alcuni aspetti culturali che fanno da sfondo è sicuramente determinante la coscienza di quanto i cittadini si sentono rappresentati da chi ha preso quella determinata decisione, quanto è diffusa la consapevolezza che quella specifica decisione o quell’insieme di provvedimenti sono stati adottati nell’ottica dell’interesse pubblico. Più i cittadini si sentiranno distanti dalle istituzioni meno sentiranno la “spinta” a comportarsi secondo quanto deciso.

L’esistenza di istituzioni politiche capaci di incarnare l’interesse pubblico è il discrimine tra le società politicamente sviluppate o meno.

Per Bertrand De Jouvenel costruire comunità significa “istituzionalizzare la fiducia” e la “funzione essenziale delle autorità pubbliche” è quella di “incrementare la fiducia reciproca, cioè l’elemento che costituisce il cuore dell’insieme sociale”. Questo riguarda il rapporto tra cultura della società e istituzioni politiche. L’assenza di fiducia nella cultura della società crea ostacoli alla creazione delle istituzioni pubbliche.

L’astensionismo, soprattutto quando raggiunge livelli significativi è da inquadrarsi in questo ragionamento. Non può assolutamente essere interpretato come secondario. Se aumentano sempre di più le persone che decidono di non andare a votare, se il rapporto tra i cittadini e chi si candida a fare da intermediario tra questi e le istituzioni (i partiti), si incrina al punto tale da arrivare quasi ad annullare la fiducia, siamo di fronte a un problema che riguarda i fondamenti del vivere comune in un sistema democratico. Si mette in discussione la base che sostiene le istituzioni. È come se dovessimo costantemente adeguarci a scelte imposte da “estranei”… non lo faremo volentieri, soprattutto se implicheranno sacrifici.

In un momento di crisi questa situazione può diventare pericolosa, perchè quando il livello di conflittualità sociale si alza e le istituzioni sono fragili la mediazione diventa difficile. Nella storia, quando questa è fallita, la convivenza tra le diversità è diventata più difficile, gli spazi democratici si sono affievoliti e si sono aperti scenari autoritari. E le guerre.

Chi si candida a rappresentare i cittadini ai diversi livelli di governo deve avere chiaro tutto questo e sentirsi responsabile di recuperare più fiducia possibile. Solo su una base solida c’è la possibilità di confronto tra diverse posizioni di merito e si può preservare la convivenza democratica.

Al netto della trasformazione che sta investendo la forma partito, “come aumentare la fiducia e la partecipazione dei cittadini” deve diventare la sfida centrale per chiunque oggi voglia fare della buona politica, che de, oggi più che mai, essere inclusiva e democratica. Dobbiamo cercare di capire le ragioni profonde di quanto sta succedendo, di questo ritiro della cittadinanza e darci come priorità l’aumento di partecipazione alla vita politica del paese della maggioranza dei cittadini. Per fare questo serve un orizzonte di medio-lungo periodo e il recupero della dimensione pedagogica della politica, nella consapevolezza che la sinistra “il popolo non l’ha trovato, ma lo ha costruito”. Resta da comprendere come si possa ri-costruire oggi questo legame. Un oggi caratterizzato dalla spettacolarizzazione, dall’ iperconsumo delle esperienze e dalla virtualizzazione operata dalla pervasività dei social network. A me basterebbe vedere che la domanda fosse accolta e che mentre si cerca di vincere le singole competizioni elettorali (come è giusto che sia), nello stesso tempo si pongano le basi per processi costruttivi, volti a mettere insieme le forze politiche di centro-sinistra e il ceto politico con un “popolo” da costruire.

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