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Un pensiero “politico” su questi giorni

Il Partito Democratico vive una forte crisi. Molte persone non si riconoscono più nel progetto di cambiamento che avrebbe dovuto rappresentare. E’ una situazione che riguarda sia chi ricopre incarichi dirigenziali sia molti militanti che, in questi anni, non hanno più rinnovato la tessera del PD o hanno deciso di votare altre formazioni o addirittura di non votare. E’ una ferita aperta da qualche anno. Non credo che la cosa si possa solo affrontare con un “mi dispiace” da chi ha la responsabilità di questa grande comunità in questi anni. Io non ci dormirei di notte.

Tutte le volte che le ragioni della divisione prevalgono su quelle dello stare insieme, assistiamo a una sconfitta perché stiamo spostando il conflitto dal campo culturale, sociale e politico al quadro interno. Indeboliamo la nostra capacità di incidere sulla trasformazione della società.

Sbaglia chi pensa che quanto sta accadendo in questi giorni non rappresenti qualcosa di grave per il Partito Democratico e per il Paese. Non sappiamo cosa succederà nei prossimi mesi, quanti danni provocherà ”la crepa che si è aperta nella diga”.

Una cosa è certa: non basta andarsene dal PD, come non basta restare, perché si risolva la profonda crisi che attraversa il partito e che riguarda la sua identità, la qualità della relazione con i cittadini, ma soprattutto la capacità di rispondere alle sfide che la nostra epoca ci mette di fronte.

In uno scenario in cui la divisione sembra inevitabile, sorgono domande importanti sia per chi resta sia per chi deciderà di spostare altrove il proprio impegno politico. Per chi resta definire qual è la cornice entro cui agire è fondamentale. Su troppe questioni convivono posizioni troppo diverse.

Io sono tra coloro che non si riconosce nell’interpretazione che Matteo Renzi dà del riformismo. Al di là dei tanti risultati positivi di questi anni (penso, ad esempio, ai diritti civili, alle leggi sul dopo di noi e sull’autismo, alle richieste all’Europa in tema di migranti), mi piacerebbe che su molte questioni il Partito Democratico mettesse in campo politiche diverse, che attingano un po’ di più dal pensiero e dalla tradizione socialdemocratica e un po’ meno da quella liberista. Credo che si critichi troppo poco il modello dominante attuale, il predominio della finanza a livello globale, che si ricerchino troppo poco paradigmi alternativi.

Si parla troppo poco di diseguaglianza, di politiche ridistributive. Non è chiara qual è la strategia di lotta alla povertà in questo contesto di crisi globale che si sta riversando sui ceti medi e sui ceti più poveri. Mentre diciamo di no al reddito di cittadinanza, non si comprende qual è la strada alternativa. È il reddito di inclusione sociale? È altro? Certo l’ideale sarebbe creare lavoro per tutti, ma oggi abbiamo il 40% di disoccupazione giovanile. Sulle politiche del lavoro la posizione del più grande partito riformista europeo è tutta riconducibile al jobs act?

Sull’ambiente e sul modello di sviluppo tutto quello che avevamo da dire lo abbiamo detto con lo sblocca-Italia?

Ecco io credo di no. Una cosa è dire che le scelte fatte dal governo rappresentano una mediazione nata dalle condizioni dettate dalla “non vittoria del 2013”, un’altra è dire che rappresentano il migliore dei mondi possibili. In questo senso la coincidenza tra segretario del partito e candidato premier prevista dallo statuto del PD non aiuta.

Occorre aprire uno spazio dove domandarci insieme tutto questo, perché senza una sintesi su queste questioni di fondo la convivenza sarà sempre difficile. Certamente il congresso dovrà servire a dare risposta a queste domande e non solo a definire la leadership. Io credo che sia necessario invertire la rotta e tornare a dialogare con il mondo del lavoro, con il mondo giovanile, con la scuola, ma soprattutto occorre mettere al centro dei pensieri, delle parole e delle scelte il miglioramento delle condizioni di vita di chi sta peggio e un modello di sviluppo compatibile con la possibilità di futuro.

Molti problemi, alcuni simili, li avrà chi deciderà di lasciare il Partito Democratico e di percorrere una strada diversa. In particolare, però, dovrà indicare dove va, con chi e per fare cosa. Perché la politica non è una questione di filiere legate a singole persone, ma progetto collettivo di cambiamento. E poi, credo, dovrà fare i conti con la possibilità di dare gambe davvero alle proprie istanze: un arcipelago di tanti piccioli gruppi, omogenei al loro interno per cultura e idee condivise, quanto può incidere sulla trasformazione della società? Credo anche che si debba spiegare perché si va via ora e non quando eravamo di fronte a scelte epocali e simboliche importanti come il jobs act o la riforma della costituzione.

Quali prospettive ci sono? Dove porterà questo percorso? Temo che si allargherà lo spazio per la cultura qualunquista o di destra come già sta avvenendo in molti Paesi.

Io credo, invece, che, al di là del sistema elettorale che si sta configurando in Italia, dovremmo fare lo sforzo inverso. Dobbiamo recuperare l’intuizione dei socialisti degli albori: avevano capito che il movimento non poteva che essere internazionalista, l’unità della sinistra non poteva che essere globale per portare un cambiamento strutturale di sistema. Un’utopia di allora che oggi chiede di essere realizzata in maniera ancora più forte: siamo di fronte a un mondo globalizzato e interconnesso nel quale, è evidente, servono, per l’appunto risposte globali e interconnesse.

Molti hanno sottolineato la necessità di un confronto sulle tesi, sui contenuti e non solo sulla leadership all’interno del Partito Democratico. Credo anch’io che sia fondamentale, ma non sufficiente: può essere un importante punto di partenza nazionale, ma serve un soggetto che ponga questo problema a livello europeo e globale. E’ sotto gli occhi di tutti, infatti, la crisi degli stati Nazione che sempre di meno hanno la capacità di affrontare i problemi: basti pensare ai fenomeni migratori o ai problemi del mondo del lavoro.

Questo è uno dei motivi fondamentali che mi fa credere che serva ancora un contenitore come quello del PD: uno strumento dove conciliare idee di giustizia e possibilità di governo, ma soprattutto aspirare a una dimensione post-nazionale. Sul primo aspetto è quello che, nel piccolo, ho potuto sperimentare anche nella mia breve esperienza amministrativa in Regione. Per tanti anni ho immaginato, sognato, denunciato alcune situazioni. Ma solo governando ho potuto realizzare concretamente alcune di queste cose. Per quanto riguarda il secondo aspetto, invece, è tutto ancora da costruire.

Le mie scelte future dipenderanno da tutto questo; dalle risposte alle tante domande che ho posto in queste righe. Dopo anni di impegno civile ho scelto di impegnarmi direttamente in politica con l’obiettivo di contribuire a creare le condizioni perché si viva meglio, ci sia possibilità di futuro, a partire dagli ultimi, da chi sta peggio. Sarò lì dove vedrò tutto questo più realizzabile.

 

Post scriptum

Ho in mente in questi giorni Corbyn e Sanders. Se il primo avesse lasciato il Labour quando Blair imponeva la sua leadership e la sua linea oggi non sarebbe il segretario del partito. Sanders aveva idee diverse da Hilary Clinton, che lo ha battuto alle primarie. Eppure resta nel Partito Democratico americano aggregando attorno a sé e alle sue idee milioni di cittadini americani.

Post scriptum 2

Intanto si continua a lavorare. Lunedì la proposta di legge 227 ha cominciato il suo iter in prima commissione e spero possa diventare legge nei prossimi mesi così che la Regione sia in grado di dare più sostegno alle vittime dell’usura e dell’estorsione e possa portare avanti progetti di prevenzione sul sovraindebitamento che colpisce sempre di più le fasce deboli.
Ieri mattina, in Consiglio Regionale, si è svolto un seminario sui temi dell’economia circolare e della bioeconomia che ho promosso al fine di incentivare nei nostri territori un modello e un settore, già presenti, che rappresentano un’opportunità che mette insieme lavoro, ambiente e futuro.

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