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Piccola riflessione post-referendaria

E’ vero che la politica è spesso questione che afferisce al potere. In parole molto povere si tratta di capire chi “decide” o “comanda”. Ecco perché ci si concentra tanto su vittoria o sconfitta. Certo ci sarebbe poi da comprendere decidere o comandare per cosa? Per chi?  Sarebbe bene che questi due aspetti viaggino sempre insieme. Il rischio, altrimenti, è quello di una lotta per il potere fine a se stesso o di piattaforme che non vedranno mai la luce perché mai messe alla prova del governo concreto. Chi si occupa di politica quindi deve cimentarsi costantemente con il problema del consenso necessario ad arrivare a decidere e con i contenuti con cui riempire le scelte da fare una volta al timone della nave.
Credo altresì che chi si confronta con il tema del potere non possa e non debba ignorare alcuni elementi di base che le scienze umane, a partire dalla psicologia, ci mettono a disposizione. Nel guardare indietro ai mesi che hanno preceduto il referendum, ma anche a questi primi giorni post votazione, mi sembra di poter dire che possiamo migliorare tanto in questo senso. Non può essere sempre e solo una questione di forza, di gioco a somma zero o di scommesse “tutto o niente”: nessun sistema regge a lungo una tensione di questo tipo.
Allora proviamo a partire dalla differenza tra relazione e contenuto. In ogni messaggio c’è un doppio livello. Quello del contenuto afferisce all’informazione tra gli interlocutori, quello della relazione, invece, definisce il tipo di relazione che si vuole instaurare con l’interlocutore: amore, odio, comando, disprezzo, ecc. Il risultato referendario dovrebbe dirci che dovremmo mettere più attenzione al livello della relazione. Quando questo non funziona tutti i contenuti, anche se buoni passano in secondo piano e vengono fraintesi o mal interpretati. Basta aver fatto esperienza di una relazione affettiva o amicale finita male per comprendere come in una situazione in cui la relazione non funziona anche i migliori tentativi finiscono per rafforzare la lacerazione o la divisione.
Non so se davvero Matteo Renzi ha detto la frase: “non pensavo mi odiassero tanto” (come riportano alcuni giornali) e non so, qualora l’abbia pronunciata, a chi si riferisse. Certo, però, sarebbe stupido sorvolare su questi aspetti, perché le emozioni che proviamo e che provano gli altri dicono della relazione più che del contenuto. Certamente una parte di chi ha votato NO (ma anche di chi ha votato SI) è stata spinta da considerazioni afferenti alla relazione e non solo a considerazioni di merito su quanto proposto. Questo ancora di più in una situazione in cui il contenuto, anche a detta di chi lo sosteneva, non era ottimo e comunque complesso, quindi difficilmente riconducibile a un secco SI o NO, nonostante le opposte propagande.
Se il Presidente del Consiglio si è sentito “odiato” o certamente “incompreso”, è altrettanto vero che con ogni probabilità, qualora i NO siano stati più forti tra i giovani e le classi meno abbienti, questo significa che anche costoro si sono sentiti ignorati, messi da parte, rifiutati(?).
Basta parlare con le persone, incontrare le persone “normali” per capire quale pregiudizio negativo ci sia verso chi fa attività politica. Le persone, in genere (non tutte), non si fidano. E anche coloro che ricevono un investimento positivo di fiducia hanno un “timer” molto breve. La relazione non funziona.
Non so come fosse nella prima repubblica. Ma se devo pensare ai primi anni del dopo-guerra, agli anni in cui i partiti avevano milioni di iscritti, al rapporto che c’era tra gruppo dirigente e militanti, allora mi dico che la relazione, anche se conflittuale, era positiva. Ci si fidava.
Dovremmo ricercare una politica che curi la relazione… Con gli alleati, con chi nel partito ha idee diverse dalle nostre, ma soprattutto con i cittadini e ancora di più con i cittadini che sono in difficoltà. Solo quando torneremo a essere credibili, a far sì che ci sia fiducia nella classe dirigente, allora anche le proposte complesse e difficili saranno interpretate nell’ottica di un tentativo di miglioramento delle condizioni di vita del paese. Credo sia la sfida più difficile che abbia oggi chi vuole governare in una prospettiva medio lunga. Il resto è gioco di forza sul presente, ma privo di prospettiva e alimentato solo da sentimenti negativi. Ecco perché il ragionamento che dà per scontato che il 40% che ha votato SI sia tout court il risultato del PD alle prossime elezioni è miope. Perde di vista i motivi veri della crisi.
Così non è stato in questi anni e ancora meno con questo Referendum. Spostare l’asse dalla riforma costituzionale al giudizio sul governo è stato un errore grave. Ha fatto sentire molte persone in trappola. Tante persone avevano un giudizio positivo o non-negativo sul governo Renzi, ma non condividevano fino in fondo la proposta di riforma. Che fare? In un clima da opposti climax ascendenti i non tifosi si sono trovati in una situazione paradossale in cui qualsiasi scelta si rivelava sbagliata: o voto contro un governo in cui mi riconosco (o che ritengo meno peggio) oppure voto contro le mie convinzioni sulla carta costituzionale. Mettere l’elettore di fronte a questo dilemma è sbagliato, ma è stato anche un errore di strategia. Giocare a “tutto o niente” è pericoloso e, in questo caso, i rischi li corre il paese.
Il PD deve riconnettere e riconnettersi: al suo interno, con i propri alleati naturali (a sinistra) e con i cittadini.
Deve anche tornare a far crescere una classe dirigente. Davvero vogliamo rassegnarci all’idea che le politiche necessarie passino solo dalla leadership di un uomo solo (chiunque esso sia)? E’ chiaro che siamo in un’epoca in cui non possiamo prescindere dalla leadership, ma se non torniamo a costruire classe dirigente saremo sempre sottoposti al ricatto. Dovremmo cominciare a diffidare di chiunque si proponga in questi termini: ci mette in scacco.
Che la sovranità appartenga al popolo significa anche questo. Che una proposta votata a maggioranza dal parlamento non trovi riscontro nella maggioranza del paese. Questo dovrebbe interrogare prima di tutto la maggioranza che ha proposto la riforma. Non solo, però, sul merito di essa: perché, lo ripeto, il fatto che il popolo dica NO non significa che la riforma non andasse bene. Significa un’altra cosa: che l’idea della relazione tra maggioranza parlamentare e maggioranza del paese è vista in maniera differente (opposta) dai due gruppi in gioco. E questo dà una responsabilità ancora più alta a chi, volendo far politica, ed avendo in mano le soluzioni migliori, non è in grado di creare consenso su queste. Sta qui il fallimento politico referendario, che credo coincida con la crisi di fondo che sta attraversando il PD. Da qui dovremmo ripartire: come fa il partito a mettere in piedi maggioranze in grado di governare in sintonia con la maggioranza del paese? Magari a partire da giovani e poveri?
Bene ha detto oggi il presidente Chiamparino: “Dunque si vada al voto presto… Non prima però di aver messo in sicurezza l’economia, approvando la legge di stabilità, di aver adeguato le leggi elettorali di Camera e Senato, anche sulla base degli eventuali rilievi della Corte, e di aver messo a fuoco dove e come cambiare le politiche e i modi di condurle, almeno ponendoci alcuni quesiti. Ad esempio: qual è stata l’efficacia, in termini di occupazione e ricchezza, delle non poche risorse pubbliche impegnate negli ultimi due anni fra abolizioni e riduzioni di tasse, bonus, premi e incentivi? Quali potevano essere le potenzialità alternative? Non amo i rituali congressuali. In qualunque forma e modo bisogna però rapidamente far capire che abbiamo capito.” Dal mio punto di vista la centralità del messaggio è “come cambiare le politiche e i modi di condurle” e “far capire che abbiamo capito”. Diversamente potremo anche vincere le elezioni, ma se non salviamo la relazione non potremo fare altro che scivolare verso scenari negativi.
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