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Il castello di Miasino passa alla Regione Piemonte. Una vittoria della legalità.

Castello di Miasino

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Venerdì scorso, durante a cerimonia di consegna del Castello di Miasino alla Regione Piemonte da parte dell’Agenzia Nazionale dei Beni Sequestrati e Confiscati, la comunità novarese ha vissuto un momento intenso, ricco di emozioni positive, di speranza e di buona politica. Ingredienti di cui abbiamo bisogno, come istituzioni, come cittadini, per poter guardare al futuro. 
La presidente Bindi, a un certo punto del suo discorso, ha ricordato che il Castello di Miasino figurava tra gli esempi negativi nella relazione della Commissione parlamentare antimafia per il Parlamento: “Ora, però, dovremo cambiarla”, ha aggiunto. Nel bene e nel male, il Castello, per la sua storia, la sua bellezza, le sue potenzialità, assume un significato nazionale: diventa un simbolo importante. E i simboli, nella costruzione della cultura democratica, del substrato culturale che sta alla base delle nostre vite quotidiane, sono importanti. Gustavo Zagrebelsky, in Simboli al potere, scrive che «il simbolo è tale se induce a un percorso, cioè se mette in movimento energie spirituali. Il simbolo non promuove conoscenza descrittiva, dunque passiva, ma fervore elaborativo, dunque attivo. Il simbolo si radica in ciò di cui si fa esperienza, dunque nel passato, ma si rivolge al futuro».  Il Castello ci ha già fatto fare tanta strada e ci mette davanti ancora un bel pezzo di cammino. L’ho ricordato nel mio intervento: dobbiamo prepararci alla volata finale, che consiste nel progetto di riutilizzo sociale del bene che, solo così, si trasformerà da “luogo della resa” a “luogo del riscatto” civile e morale della nostra comunità.
Con piacere condivido il testo integrale del mio intervento, le immagini della giornata, i video che raccontano quanto accaduto e le testimonianze di una giornata che aspettavamo da tanti anni!

Buongiorno a tutti.

Non vi nascondo l’emozione nell’essere qui oggi, finalmente “dentro” il castello di fronte alle massime istituzioni del nostro Paese. Non è stato facile arrivare a questo momento. Per me si tratta di una strada imboccata tanti anni fa. Almeno dal 2009, quando ricevetti una mail nella quale venivo sollecitato ad occuparmi del castello di Miasino, bene confiscato, ma ancora gestito dai parenti del boss. Sono passati sette anni. Sette anni di approfondimenti, articoli, incontri, denunce, proposte… di un appassionante e faticoso lavoro collettivo che, partito da pochi, ha contagiato “molti”, come spesso accade per le battaglie giuste portate avanti con passione. Sette anni durante i quali abbiamo trovato tanti ostacoli, che però non ci hanno mai fatto desistere, anzi, al contrario ci hanno spinto a resistere… Soprattutto alla tentazione più forte, che è quella di arrendersi. Di accettare “che non si può fare”.

Noi abbiamo avuto la capacità di perseverare: tanti cittadini e associazioni che molto spesso in questo paese sanno essere PUNGOLO per le istituzioni.

Oggi intervengo come consigliere regionale, vice-predicente della Commissione regionale sulla legalità. Quando cominciò questo percorso, nel 2009 facevo parte di un gruppo di cittadini responsabili, volontari che semplicemente non accettavano una situazione ingiusta. Non ero consigliere io, non era parlamentare l’on. Davide Mattiello, che da sempre condivide con il territorio novarese questa battaglia di civiltà in tutti i suoi passaggi. Ci siamo battuti in quegli anni quando eravamo rispettivamente referente di Libera a Novara e referente di Libera in Piemonte, e continuiamo a farlo oggi, nelle istituzioni che, temporaneamente, ci ospitano.

Potrei raccontare, oggi, perché c’è voluto tanto tempo; quali sono state le cose che non hanno funzionato. Ma non voglio usare i pochi minuti che ho per fare questo. In troppe occasioni lo abbiamo fatto. Vorrei, invece, provare a raccontare gli aspetti positivi della storia. Come si è arrivati alla “conversione”, al cambiamento di sguardo e di direzione. Come siamo passati da esempio di una filiera che non funziona, che ha sempre un motivo per incepparsi, a esempio e testimonianza di una filiera che è virtuosa, che finalmente riprende a funzionare nella giusta direzione. E poi vorrei provare a dire quello che ancora resta da fare.

IMG_2430Eviterò, quindi, di raccontare cosa è accaduto dagli inizi degli anni ’90 (quando il castello fu sequestrato) al 2009 (anno della confisca in via definitiva). E anche quello che è avvento dal 2009 al 2012. Partirò da questa data, da quattro anni fa, dal 2012, quando l’agenzia nazionale dei beni confiscati e sequestrati (nata nel 2010) invia una lettera agli enti locali (comuni, provincia e Regione) per chiedere loro una manifestazione di interesse, di farsi carico del percorso di riutilizzo sociale. A questa richiesta, per diverse ragioni, nessuno rispose positivamente e questo bloccò ulteriormente il percorso. Tanto che l’Agenzia arrivò a definire la vendita del bene.

Personalmente, devo dire, che proprio la situazione del castello di Miasino, insieme ad altre, mi portò, nel 2014 ad accettare l’idea di candidarmi. Questa situazione che non si sbloccava mi ha spinse a cercare di portare dentro le istituzioni i valori e le sfide che avevano animato il mio impegno e quello di tanti altri negli anni precedenti. Cominciai a sognare, insieme ai tanti compagni di strada, che quella lettera dell’ANBSC fosse aperta da un altro interlocutore. Un interlocutore capace di una risposta diversa.

Durante la campagna elettorale del 2014 venimmo qui a Miasino (con me c’erano l’on. Davide Mattiello e alcuni ragazzi).

Girammo un video, “fuori” da qui. Lo sottolineo, perché ancora nel 2014 questo posto era inaccessibile ai cittadini. Nel video dichiarai: «sogno una Regione coraggiosa, capace di farsi carico del Castello di Miasino e di trasformare un bene confiscato alle mafie in un’opportunità di riscossa culturale e morale e di sviluppo economico».

Venni eletto. Il 30 giugno 2014 entrai per la prima volta in Consiglio. Tre mesi dopo, il 30 settembre 2014 il Consiglio Regionale votava all’unanimità una mozione che impegnava la Giunta a rispondere positivamente a quella lettera. Cinque mesi dopo, la giunta deliberava in tal senso.

Bene. Oggi, con orgoglio, lo possiamo dire. La Regione Piemonte sta facendo la sua parte… coraggiosamente. Lo fa in un momento di enorme difficoltà di bilancio, dove i motivi per “non fare” sarebbero tanti. Lo abbiamo visto molte volte in questi anni: per bloccare qualcosa ci sono sempre mille motivi. Il problema, al contrario, è trovare un motivo per farle le cose, per portarle avanti.

io parloLo ripeto, questa Regione, questa Giunta, stimolata dal Consiglio, non si è tirata indietro. E di questo devo dire grazie a tutti i miei colleghi consiglieri che hanno creduto con me all’opportunità di procedere in questa direzione, al presidente Chiamparino, al vice-presidente Reschigna e agli assessori Parigi e Ferrari (da cui dipendono anche i prossimi passi) e a tutti i dipendenti della Regione che, nei diversi ruoli, hanno reso possibile questa giornata e che lavoreranno ai prossimi passi.. Il ringraziamento non può non estendersi anche al prefetto di Novara Francesco Paolo Castaldo, al direttore Umberto Postiglione, ai sindaci di Miasino e Ameno, Giorgio Cadei e Roberto Neri, a Davide Mattiello. Tutti insieme, al livello istituzionale, siamo stati capaci di raccogliere una sfida che nessuno prima aveva saputo cogliere.

Oggi finalmente siamo qui. Usando una metafora ciclistica penso a questa giornata come a una volata intermedia. Una tappa fondamentale del percorso cominciato tanti anni fa. Siamo riusciti a sbloccare un meccanismo che sembrava inceppato e finalmente possiamo dire che le Istituzioni stanno funzionando. Stanno facendo il loro dovere.

Non dobbiamo ingannarci, però. Il percorso non è arrivato al fine-corsa. Il rischio è alto, perché se non arriviamo in fondo tutta la fatica fatta potrebbe essere stata inutile, vana.

Sappiamo quanto i beni confiscati siano un simbolo. Possono essere un simbolo negativo o positivo.

Ci dice Gustavo Zagrebelsky, in Simboli al potere, «il simbolo è tale se induce a un percorso, cioè se mette in movimento energie spirituali. Il simbolo non promuove conoscenza descrittiva, dunque passiva, ma fervore elaborativo, dunque attivo. Il simbolo si radica in ciò di cui si fa esperienza, dunque nel passato, ma si rivolge al futuro».

Certamente un bene confiscato e non riutilizzato è un simbolo negativo.

Sappiamo quanto una confisca che toglie sulla carta ma lascia “nelle mani di” sia una beffa per lo stato, sia l’immagine di un’istituzione debole perché alle sue decisioni non segue nulla;

quanto una confisca a cui non segue il riutilizzo vanifichi tutto il lavoro fatto da magistratura e forze dell’ordine sul lato patrimoniale;

Insomma la confisca da sola è un’azione zoppa… non può camminare perché le manca una gamba.

Non devo certo essere io, qui, oggi, a ricordare quanto sia stata rivoluzionaria l’intuizione di Pio La-Torre proprio su questi temi e le gambe che, a quella intuizione, diede il milione di firme raccolto da Libera negli anni ’90.

Un bene confiscato e non riutilizzato è un monito alla nostra inadeguatezza; è la cifra di tutto ciò che non ci possiamo permettere. Fa male, come una ferita che non guarisce mai.

Al contrario un bene confiscato e riutilizzato socialmente è un simbolo positivo.

È la materializzazione di quell’insegnamento che tutti conosciamo e che raccontiamo ai ragazzi nelle scuole: che la lotta alle mafie non è solo attività repressiva, ma necessita di una pars construens fatta di scuola, cultura, lavoro… di quel “fresco profumo di libertà…”. Un insegnamento che ci arriva da tutti coloro che hanno messo l’intera esistenza al servizio della lotta alle mafie. Tra questi grandi maestri c’è certamente, Giancarlo Caselli, che ringrazio di essere qui con noi.

Pensate al valore pedagogico che assume! Quale carburante democratico diventa un bene riutilizzato! In una società dove la fiducia verso le istituzioni è al minimo storico dovremmo strategicamente lavorare su tutte quelle situazioni che possono invertire la tendenza. Questa certamente lo è. E nel bene e nel male tutte queste cose diventano simboli ancora più importanti quando riguardano posti belli e importanti come questo. Non a caso, oggi, siamo qui con il Procuratore Nazionale Antimafia e la Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia. Perché la situazione e il destino del Castello di Miasino riguardano l’Italia intera. L’eco di quello che succede e succederà qui va oltre i confini della nostra provincia.

Allora non possiamo fermarci. Oggi il sogno muta, si evolve. Posso dire (questa volta “dentro” e non fuori) che sogno una comunità capace di accettare la sfida che le istituzioni le lanciano. Dopo che la società le ha stimolate, ora la palla, la sfida torna indietro, in un cerchio che deve chiudersi virtuosamente: con un castello restituito alla collettività, riutilizzato socialmente. Eh sì, perché aveva ragione Calamandrei, quando ci insegnava che lo Stato siamo noi. Perché l’ultimo pezzo di questo viaggio ha bisogno proprio della “partecipazione collettiva e solidale del popolo”, dei cittadini. Solo così “un popolo può tornare padrone di sé”.

Quando questo accadrà… solo quando questo accadrà, potremo tirare un sospiro di sollievo.

Solo quando questo posto sarà tornato a generare economia “pulita”, quando sarà un luogo aperto alla comunità, quando potremo portarci le scolaresche, come già avviene in altri beni confiscati e riutilizzati, a dire ai ragazzi “qui lo stato ha vinto” saremo di fronte a una piccola epifania della costituzione, a una democrazia che funziona. E tutti noi qui, presenti in questa sala, sappiamo quanto bisogno c’è di questo nel nostro Paese oggi.

Ma la sfida futura non si esaurisce con il progetto di riutilizzo sociale. È duplice e porta con sé un altro aspetto: quello relativo al substrato culturale, in cui tutto questo è avvenuto e avviene. Un substrato culturale che per troppi anni (erroneamente) è stato ritenuto peculiare solo di alcune regioni italiane. Non certo delle nostre. Oggi sappiamo, con evidenza, che non è così. Ce lo hanno dimostrato tutte le inchieste di questi ultimi anni. Per quanto riguarda la nostra storia, però, non posso nascondervi un dato, che per me è stato significativo. Quando il castello è stato sgomberato, a febbraio del 2015, la maggior parte dei messaggi che ho ricevuto non è stata di congratulazioni. Al contrario: mi hanno scritto coppie di sposi che si lamentavano perché non potevano più sposarsi qui… qualcuno ha scritto (anonimamente) che stavamo facendo tutto questo per degli interessi personali… alcune ditte che lavoravano con la società che gestiva il castello si sono lamentate perché hanno perso un partner di lavoro. Tutti consapevoli di chi gestiva il castello.

Poche parole (se non tra gli addetti ai lavori) di contentezza, di liberazione.

Non vi nascondo l’amarezza che questo provocò in me!

A cosa può abituarsi una comunità?

Questo non lo possiamo accettare. Non può esistere assuefazione alle mafie. E su questo terreno, sulla crescita della coscienza civile delle nostre comunità dobbiamo lavorare tanto. È stata questa la grande conquista scaturita dalle stragi degli anni ’90: compiere finalmente quel salto culturale e sociale che ha spostato la lotta alle mafie da compito di pochi e isolati individui (eroi) a sfida collettiva di un intero paese. Non possiamo e non dobbiamo accettare passi indietro su questo. Quello che stiamo facendo qui è che cercheremo di fare nei prossimi mesi e anni non riguarda pochi “esaltati” o chi ha compiti istituzionali particolari. Riguarda tutti. Tutti i cittadini.

So che questo secondo aspetto della sfida è il più complesso ed è quello che richiederà più tempo. Molto, però, in questo secondo aspetto della sfida dipenderà da come chiuderemo il primo aspetto: quello del riutilizzo sociale.

Chiudo restando fedele alla metafora ciclistica. Non facciamo l’errore, oggi, di pensare di essere arrivati. Dobbiamo ancora fare la volata finale: essa consiste in tutti i passi necessari al riutilizzo sociale di questo bellissimo posto. Il giorno che lo inaugureremo (spero già quest’anno) per la sua nuova vita avremo compiuto non una cosa “anti”, ma una cosa “per” e “con”; avremo un segno tangibile di quella comunità che si organizza in maniera alternativa alle mafie secondo lo spirito costituzionale.

Allora, e solo allora, avremo trasformato questo castello da “luogo della resa” a “luogo del riscatto” civile e morale della nostra comunità.

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