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Di codici, di antimafia e di autonomia della politica

parlamentoContinua il dibattito sulle scelte fatte dalla Presidente della Commissione Antimafia Rosy Bindi in merito alla pubblicazione della lista degli “impresentabili”. Sul tema si sono espressi e si esprimono autorevoli  esponenti del mondo politico, della società civile e delle istituzioni con tesi di natura contrapposta.

Analisi ragionate e approfondite su un tema per cui non può valere l’ipse dixit. Per questo motivo e per la mia storia personale sento di dover aggiungere la mia voce, alle tante che già si sono espresse, provando ad sostenere la mia posizione con un minimo di argomentazione. Si tratta di un discorso complesso, che tocca diversi temi, alcuni dei quali fondamentali per la storia delle dottrine politiche: l’equilibrio tra poteri in democrazia, i limiti dei regimi democratici, la selezione della classe dirigente… solo per citare i principali.

Dico subito che, a mio avviso, il tema dei codici etici e di autoregolamentazione afferisce alla questione più ampia dell’equilibrio dei poteri nella sua declinazione peculiare italiana dell’autonomia della politica dalla magistratura. Si tratta di una questione fondamentale che, in questi anni, con la crisi della politica, ha assunto un’importanza particolare anche per l’opinione pubblica. “Il potere limita il potere” diceva Montesquieu e in questi anni, nel nostro paese, tante volte la Magistratura è intervenuta per arginare alcune derive o storture che il potere politico non era riuscito evitare. Il dibattito, quindi, si è orientato molto nella direzione di provare a ristabilire il più possibile l’autonomia della politica dalla magistratura e dagli altri poteri (si pensi al rapporto con il mondo finanziario, ma qui si aprirebbe un altro capitolo). Autonomia importante perché attraverso la politica i cittadini esercitano la propria sovranità. Inutile aggiungere che il voto popolare non può e non deve superare le regole che i cittadini decidono di darsi perché solamente l’uguaglianza di fronte alla legge ci tutela da soprusi e dalla legge del più forte.

Il tema, quindi, è “come fa la politica a tornare a essere autonoma”? Quante volte abbiamo ascoltato, Nel dibattito degli ultimi decenni, frasi come “non possiamo delegare la scelta di chi governa alla magistratura”? Una delle strade scelte dalla politica, nelle sue diverse articolazioni, è stata quella di dotarsi di organi e codici di autoregolamentazione. Codici, permettetemi di sottolinearlo, autonomi (autòs e nomos). La politica si chiede: “come faccio a evitare le condizioni per cui la magistratura debba intervenire sugli eletti”? Decide di darsi delle regole che dovrebbero – almeno nelle intenzioni – abbassare le probabilità di un intervento della magistratura. In questo senso nascono i codici etici dei partiti, come ad esempio quello del Partito Democratico, la “Carta di Avviso Pubblico – Codice Etico per la Buona Politica), e la “Relazione in materia di formazione delle liste delle candidature per le elezioni europee, politiche, regionali, comunali e circoscrizionali” della Commissione Parlamentare Antimafia”. In tutti questi codici si affermano gli stessi principi e si prendono impegni precisi sui comportamenti da adottare nei confronti dei diversi candidati in tutte le competizioni elettorali. A titolo esemplificativo, cito il Codice Etico del PD:

2) Principi di riferimento dei comportamenti individuali e collettivi

  1. Le donne e gli uomini del Partito Democratico sostengono l’autonomia della politica, perché sia credibile e rafforzi il rapporto di fiducia con i cittadini. Ritengono che la politica debba assolvere la sua funzione pubblica senza essere subalterna ad alcuno. Al tempo stesso, concepiscono la politica come aperta all’ascolto della società e dei suoi bisogni, rispettosa delle altre autonomie, non autoreferenziale e soprattutto lontana da qualunque pretesa di invadenza e di lottizzazione.

Come decide di applicare questo principio? Tra le altre cose decidendo di inserire condizioni ostative alla candidatura

5) Condizioni ostative alla candidatura e obbligo di dimissioni

  1. Le donne e gli uomini del Partito Democratico si impegnano a non candidare, ad ogni tipo di elezione ­ anche di carattere interno al partito­ coloro nei cui confronti, alla data di pubblicazione della convocazione dei comizi elettorali, sia stato:
    a) emesso decreto che dispone il giudizio;
    b) emessa misura cautelare personale non annullata in sede di impugnazione;
    c) emessa sentenza di condanna, ancorché non definitiva, ovvero a seguito di patteggiamento; per un reato di mafia, di criminalità organizzata o contro la libertà personale e la personalità individuale; per un delitto per cui sia previsto l’arresto obbligatorio in flagranza; per sfruttamento della prostituzione; per omicidio colposo derivante dall’inosservanza della normativa in materia di sicurezza sul lavoro.
  2. Le donne e gli uomini del Partito Democratico si impegnano a non candidare, ad ogni tipo di elezione ­ anche di carattere interno al partito­, coloro nei cui confronti, alla data di pubblicazione della convocazione dei comizi elettorali, ricorra una delle seguenti condizioni:
    a) sia stata emessa sentenza di condanna, ancorché non definitiva ovvero a seguito di patteggiamento, per delitti di corruzione nelle diverse forme previste e di concussione;
    b) sia stata emessa sentenza di condanna definitiva, anche a seguito di patteggiamento, per reati inerenti a fatti che presentino per modalità di esecuzione o conseguenze, carattere di particolare gravità ;
    c) sia stata disposta l’applicazione di misure di prevenzione personali o patrimoniali, ancorché non definitive, previste dalla legge antimafia, ovvero siano stati imposti divieti, sospensioni e decadenze ai sensi della medesima normativa;

    3. Le condizioni ostative alla candidatura vengono meno in caso di sentenza definitiva di proscioglimento, di intervenuta riabilitazione o di annullamento delle misure di cui al comma 2 lett. c).

In questo solco di ragionamento si inserisce la decisione da parte della Commissione Antimafia di dotarsi si un regolamento sulle candidature approvato all’unanimità da tutti i partiti a settembre del 2014. Si tratta di una scelta significativa, sulla quale conviene soffermarci. Perché l’Antimafia si deve occupare di candidature? Il motivo per cui lo fanno i partiti è chiaro: è relativo all’autonomia dagli altri poteri, in particolare della magistratura. Ma perché l’Antimafia? Perché si tratta di un tassello necessario al raggiungimento delle finalità che ha la Commissione. Tra i suoi compiti essa ha quello di “indagare sul rapporto tra mafia e politica, sia riguardo alla sua articolazione nel territorio, negli organi amministrativi, con particolare riferimento alla selezione dei gruppi dirigenti e delle candidature per le assemblee elettive, sia riguardo a quelle sue manifestazioni che, nei successivi momenti storici, hanno determinato delitti e stragi di carattere politico-mafioso”.

Un obiettivo chiaro che la politica sente come irrinunciabile e necessario da sempre, tanto da istituire la Commissione nel 1962, e a maggior ragione, dopo le stragi di mafia, quando si è imposta la consapevolezza che il lavoro della magistratura non fosse sufficiente. La lotta alle mafie doveva e deve tutt’ora passare dalla costruzione di una società alternativa all’interno della quale le dinamiche mafiose non trovino spazio.

“Lo stato e la mafia sono due poteri che occupano lo stesso territorio, o si fanno la guerra, o si mettono d’accordo” diceva Paolo Borsellino. Compito della politica è quello di cancellare ogni dubbio a riguardo, per questo, deve essere in grado di fare delle valutazioni ex ante, preventive, al di sopra di ogni sospetto. E’ un lavoro che spetta prima di tutto ai partiti nel delicato compito di selezione della classe dirigente. Un’azione necessaria, impegnativa, complessa e irrinunciabile per cui la politica italiana si è dotata di strumenti utili per affrontare il nodo delle candidature, in un contesto ad alta densità mafiosa e con una forte corruzione.

Va da sé che se la politica individua, tra le altre, la strada dei codici di autoregolamentazione per evitare la deriva della delega agli altri poteri la soluzione dei problemi relativi alla selezione della classe dirigente, questi codici sono uno strumento essenziale di democrazia. L’alternativa, in assenza di nuove soluzioni, è che nell’equilibrio dei poteri, che caratterizza i regimi democratici, altre forze intervengono a sistemare le storture.

Da qui la prima valutazione nel merito della vicenda che ricordavo all’inizio dell’articolo. Nel settembre del 2014, i partiti votarono l’approvazione di un codice di autoregolamentazione con l’obiettivo di “aumentare l’autotutela da parte dei partiti e dei movimenti politici contro il rischio di inquinamento delle liste elettorali”. Un messaggio chiaro per contribuire a ridare credibilità alla politica e fiducia ai cittadini elettori che sempre più disertano le urne evidenziando quello che è il vero cortocircuito della nostra democrazia, l’astensionismo. 

Un regolamento che all’articolo 4 prevede che spetti alla Commissione Antimafia il controllo dell’applicazione dello stesso e che spetta ai partiti “rendere pubbliche le motivazioni della scelta di discostarsi dagli impegni assunti con l’adesione al codice di autoregolamentazione” (articolo 3). Pertanto, non solo la Presidente Bindi ha agito bene fotografando la situazione utilizzando il codice come criterio, ma sarebbe stata in difetto se non lo avesse fatto, avrebbe omesso, infatti, di compiere il proprio dovere secondo il mandato a lei affidato dai colleghi parlamentari che votarono quel codice. Se proprio vogliamo trovare una criticità questa è da identificare nei tempi: vale la pena fare la fotografia in tempi più brevi così da dare la possibilità ai partiti e alle forze politiche di esprimere i motivi per i quali ci si discosta dagli impegni assunti con il codice di autoregolamentazione.

Rispetto al metodo se oggi ci si accorge che qualcosa non funziona non bisogna fare altro che migliorarlo e la politica può farlo e in fretta poiché, come ho già detto, sono codici assunti in autonomia. L’unica cosa che la politica non deve fare è approvare documenti e regolamenti che poi vengono ignorati. Questo significherebbe, ancora una volta, che il potere non trova limite nelle leggi e che pretende di essere loro superiore. Affermare la supremazia della politica, principio che io condivido, non significa essere al di sopra delle leggi ma cambiarle quando scopriamo che non rispondono all’idea di società che abbiamo in mente o che producono risultati imprevisti e che sono negativi per la collettività. Se il codice non va bene si può ridiscutere a livello di contenuti o al livello del senso di questi strumenti. Ha senso, ad esempio, bloccare un sindaco condannato in primo grado per abuso di ufficio? Oppure hanno senso questi strumenti? Se no, quali alternative abbiamo?

Questa sarebbe una discussione politica seria, quella che mi vedrebbe appassionato interlocutore. Il resto appartiene alla categoria della prova di forza e di questo mi rammarica profondamente a maggior ragione quando tale scontro è interno al Partito Democratico, formazione politica in cui credo e che su questi temi non può e non deve avere alcun dubbio o ripensamento. Nemmeno un passo indietro su legalità, trasparenza e questione morale. Piegare le regole alla legge del più forte non è certo un buon modo di agire per il bene della collettività.

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